«Mi sono preso Cantù per guadagnare I giocatori li scelgo io, ci divertiremo...»
Il proprietario russo del club brianzolo: «Meno vincoli, più libertà. E un nuovo palasport»
CANTÙ Palla a due. Kyrylo Fesenko, armadio ucraino di 216 centimetri e 130 chili, in mezzo al campo cerca di raggiungere il pallone. Quindici metri più in là, davanti al sottopassaggio degli spogliatoi del Pianella, Dmitry Gerasimenko mima un salto, quasi volesse raggiungere il pallone, poi appoggia il gomito sinistro al banchetto della tribuna stampa e da quel momento comincia a giocare, tifando, sbuffando, commentando, incitando, soffrendo. E resterà così, un po’ in piedi un po’ seduto, fino alla sirena finale.
Assistere a una partita della Pallacanestro Cantù di fianco al suo nuovo proprietario e presidente è un’esperienza fisica. A ogni azione, a ogni canestro segnato o sbagliato, a ogni fischio a favore o contro (soprattutto contro), Dmitry Petrovic Gerasimenko commenta. La moglie Irina, seduta, elegante quanto discreta, osserva silenziosa ma con l’aria di quella che tiene le redini. «Chi comanda? Mia moglie, sicuro. Come in qualsiasi matrimonio. Io lavoro, giro il mondo e controllo aziende con migliaia di dipendenti, ma poi quando siamo in casa comanda lei». Capisce anche di basket? «Sì, abbastanza. Ha impar... Arbitro, è fallo! Fischia fallo!...». L’arbitro in campo la pensa in modo diverso, Gerasimenko scuote la testa e torna ad appoggiarsi al banchetto azzurro del vecchio palasport brianzolo. «Ok, cominciamo».
Cominciamo, allora. Perché proprio Cantù? «Merito di mio figlio Egor, 14 anni. L’ho spedito a Lugano a studiare alla scuola internazionale, ma è anche appassionato di basket. Così è venuto a provare qui. Un giorno mi chiama: papà, mi hanno preso a giocare a Cantù. Cantù?... il nome mi ricordava qualcosa, una squadra importante che vinceva in Europa. Ho scoperto questo club, ho visto gli stendardi appesi, i trofei vinti, mi sono chiesto: possibile che non si possa farne una società di nuovo vincente? E ho cominciato a pensare che non sarebbe stato un cattivo affare investire soldi».
È arrivato a Cantù per vincere? «Salta, dai salta, schiaccia! Così! ...quello deve saltare di più... scusi, dicevamo?». Dicevamo: è venuto qui per vincere? «No, sono qui per fare profitti». Pragmatico. «Sono un imprenditore, se investo quattrini lo faccio per guadagnarci». Quindi quella per Cantù non è una passione... «Lo è. Sono appassionato di basket e mi piace questa gente, tutti pensano a lavorare e tutti sono malati di pallacanestro. Fare profitti è il modo migliore per costruire una grande squadra reinvestendo... Mi scusi». Time out. La squadra rientra in panchina, Gerasimenko cerca di allungare il collo per sentire che cosa il suo allenatore Bazarevich abbia da dire. Poi, quando i giocatori a uno a uno tornano in campo, stringe i pugni e li incita.
Suggerimenti agli allenatori? «No, l’allenatore sceglie, poi alla fine se serve chiedo spiegazioni. È il mio ruolo». Magari Fabio Corbani, esonerato prima di Natale, non la pensa esattamente così. «Mai dato indicazioni su come far giocare la squadra. Io metto a disposizione i giocatori, e tutti meritano di stare in campo». È la squadra che vorrebbe Gerasimenko, questa? «Certo, è mia». Chi sceglie i giocatori? «Questi erano già stati scelti». Appunto. E in futuro chi li sceglierà? «Io, ovvio, è il mio lavoro di proprietario. Non credo molto nei general manager: è facile scegliere senza responsabilità. Se ci metto i soldi, mi prendo anche la responsabilità delle scelte». Canestro subito più fallo. «Ma che fa? Perché salta anziché difendere? He’s stupid, so stupid!...». Si lamenta in inglese, tifa in inglese. Ma quando è particolarmente nervoso si sfoga in russo, mimando azioni di gioco alla moglie, che annuisce silenziosa. «La squadra che voglio è un squadra spettacolare, schiacciate, corsa. Showtime!».
Lascia la postazione solo per una sigaretta nel piazzale all’intervallo. «Si sta bene qui. Se penso a quando ero bambino... Andavamo a scuola con 40 sotto zero. Con 41 no, tutti a casa, ma fino a 40 a scuola». Quando la chiamano l’Abramovich del basket, lei si arrabbia? «Un po’ sì. Io sono partito da zero, da stipendi da 50 dollari al mese. Abramovich no». E lei come è diventato un tycoon dell’acciaio e del gas? «Ricomincia la partita, rientriamo». Ok, rientriamo.
Soffre con la squadra, sembra un giocatore. Teoricamente lo è. «Ho giocato in Eurocup con l’altra mia squadra, l’Ottobre Rosso di Volgograd, contro il Galatasaray, ho fatto 4 punti». L’allenatore avrà avuto un occhio di riguardo... «No, sono come gli altri giocatori». Con la differenza che è lei a pagare lo stipendio all’allenatore. «Lui sa che in campo sono come gli altri». La partita va, il Pianella rimbomba di tifo. Gerasimenko prende il telefonino, fa scivolare le foto, prima si ferma su un cane bianco, «Le piace?», poi passa a un palazzo circondato da gru: «Guardi qui, è l’Arena che sto finendo di costruire a Volgograd. Farò lo stesso anche a Cantù, entro un mese decideremo dove. O qui a Cucciago o su un terreno a Cantù. I due sindaci sono grandi tifosi. Vedremo. Ma io sono per le soluzioni rapide». Facile da dire, in Italia... «Ah, qui troppa burocrazia. Anche nel basket. Troppe tasse da pagare, troppi vincoli, ci vuole più libertà. Nel bilancio di Cantù, solo il 27% delle uscite è legato alle attività sportive, il resto va in gestione e tasse. In un anno voglio arrivare a 50 e 50». Burocrazia permettendo... «Sono abituato: sono russo, non avete nemmeno idea di quanta ce ne sia là... Non possiamo perdere in questo modo, non possiamo». Non finisce come il presidente sperava. Sguardo torvo, poi via nel sottopassaggio. «Cominceremo a vincere, non mi preoccupo. Mi piace qui, ho tanta voglia di far tornare Cantù una squadra super in Europa. A presto». I tifosi aspettano di capire se tra qualche anno dovranno fare un monumento al giovane Egor, l’origine di tutto.
Sono per soluzioni rapide. L’allenatore fa giocare la squadra come meglio crede, poi ci si confronta. Non credo nei gm, facile prendere decisioni senza rischiare i propri soldi