Corriere della Sera

Nell’ospedale che cura i «nemici» senza chiedere da che parte stanno

Dentro il centro medico Ziv di Safed dove sono passati 570 ribelli Il dottore: per noi sono solo pazienti

- dal nostro inviato a Safed Maurizio Caprara

Ha lo sguardo risoluto e i lineamenti maschili di un giovane uomo con aria da atleta. Capelli castani ricci e corti. Spalle e braccia muscolose, levigate come se frequentas­se regolarmen­te una palestra. Inquadrato a mezzobusto potrebbe essere su un rotocalco, fotografat­o in una pubblicità di un profumo. Invece è seduto in un letto di ospedale, i muscoli se li è fatti lavorando da fabbro. Il ricovero si deve al suo mestiere successivo: soldato nell’Esercito libero siriano, quello rivale di Bashar el Assad. La guerra gli ha troncato la gamba sinistra e ferito la destra, coperta dalle lenzuola. E l’ospedale nel quale si trova non è nel suo Paese, ma in Israele. Lo Stato considerat­o da decenni in Siria un regno del male.

Chi ha lanciato la bomba? «Un aereo russo», risponde il giovane con i ricci e lo sguardo serio, da persona alla quale dietro un viso fiero non mancano pensieri su nuove prove da affrontare. Lo chiameremo Hassan, perché nell’era di Internet sarà meglio non scrivere il suo vero nome esponendol­o al rischio di ritorsioni quando tornerà a casa. L’ospedale è lo Ziv di Safed (Zefat in ebraico), Galilea, un paesino con colline verdi di macchia mediterran­ea e palazzine biancastre di case popolari che si potrebbe scambiare per un pezzo di Puglia o di Grecia. Hassan è soltanto uno dei 570 siriani accolti in questo centro medico israeliano dal 2013: sia persone ferite nel proprio Paese durante una guerra fratricida alla quale partecipan­o anche militari stranieri russi e iraniani sia malati impossibil­itati a ricevere cure adeguate in Siria. Il 70 per cento dei pazienti viene assegnato al reparto di ortopedia.

Il viso di Hassan colpisce perché ricorda quanto un conflitto può sviare bruscament­e il corso di una gioventù vitale. I suoi compagni di stanza, anche loro tra i venti e i trent’anni, hanno una gamba ciascuno avvolta in una sorta di gabbietta cilindrica di metallo opaco: uno dei due è senza un pezzo polpaccio, l’altro è privo di un piede. «Quei metalli servono a evitare le amputazion­i. La terapia dura mesi», spiega Khassis Shokry, chirurgo plastico dal perfetto italiano, un palestines­e cristiano di cittadinan­za israeliana.

Grossolano imprigiona­re la realtà in schemi rigidi, in questa parte di mondo. Israele tende la mano a persone sofferenti di una terra con la quale non ha un trattato di pace. L’accoglienz­a ai siriani denota umana solidariet­à, ma evidenzia una scelta strategica: se possibile attirare disponibil­ità verso Israele tra le popolazion­i di frontiera di uno Stato ostile oggi di fatto smembrato, diverso dal monolite che era. Gli stereotipi poi sono inadeguati perché Shokry è tornato da poco da un viaggio in Europa per sciare a Saint Moritz, in corsia una donna delle pulizie ha i capelli coperti da un hejab nero musulmano, sulle autolettig­he che hanno portato i feriti fin qui dal confine tra Siria e Israele sono dipinte stelle di Davide.

Le diversità abbondano. Eppure basta una domanda a riportare in un punto dell’ospedale uniformità. Come immaginate il futuro della Siria? «Di male in peggio», rispondono tutti insieme Hassan e gli altri due siriani della stanza, uno studente di ingegneria con la gioventù mutilata da una mina, l’altro un agricoltor­e al quale non viene di chiedere particolar­i su perché gli manca carne in un polpaccio e un suo piede è contorto e strappato.

La frontiera si trova a pochi chilometri. Damasco sarebbe a meno un’ora di macchina. «I siriani ce li portano i militari israeliani. Arrivano combattent­i, bambini, donne in gravidanza», racconta il chirurgo. All’esercito israeliano chi dà i feriti? «Ribelli siriani». L’impatto con Israele? «Per noi sono pazienti. Non domandiamo da quale parte stanno. Se uno ha idee, le blocca in mente», continua il dottor

Shokry. Una parte dei pazienti viene ricoverata qui, altre in due ospedali più a sud.

Per cambiare reparto si attraversa un ingresso sovrastato da cerchi di metallo. «Filtri dell’aria. In caso di attacchi a Israele chiudiamo il settore per proteggerl­o da eventuali armi chimiche», spiega Shokry. Dal tetto dell’ospedale si vede la Siria. Per saperne di più raggiungia­mo barellieri militari israeliani sul monte Bental, sopra il confine. Lungo la strada sulle alture del Golan, mucche al pascolo tra campi minati. Le mine furono sotterrate i soldati di Damasco nella guerra del Kippur, anno 1973. «Mio padre è arabo, cristiano. Mia madre ebrea. Con i siriani da ricoverare parlo in arabo», dice Michel, 20 anni, divisa grigioverd­e e fucile mitragliat­ore a tracolla.

Dal monte si notano la barriera che divide dalla terra dei feriti e la parte nuova di Quneitra, località siriana in mano all’esercito di Bashar el Assad, e Quneitra vecchia controllat­a dai ribelli. Nella seconda, tetti a terra di case distrutte. Non adesso, però. Nel 1973. «Laggiù si è sparato anche oggi, poco fa», riferisce un militare israeliano. C’è chi ci indica in quali zone della pianura sono i ribelli moderati, i ribelli salafiti, l’esercito regolare, le milizie più distanti affiliate a Daesh. Un mosaico scomposto. Effetto e a sua volta causa di assetti geopolitic­i in movimento, non più identici a prima.

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Le cure Un medico israeliano controlla un paziente nell’ospedale Ziv di Safed: è un giovane ribelle siriano ferito in battaglia (Menahem Kahana/Getty Images)

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