Corriere della Sera

La dottoressa del delitto di Cogne «licenziata» per i pochi pazienti

Stop alla convenzion­e. Il ricorso in mano al giudice che condannò la Franzoni

- di Marco Imarisio

L’unica volta che accettò di parlare con un giornalist­a spiegò di avere una visione morale dell’esistenza. Ai tanti che in quei mesi la stavano giudicando senza sapere neppure chi fosse, oppose una frase di Wittgenste­in, meglio non parlare di ciò che non si conosce. Non riusciva a stare nella penombra, e ogni due minuti si alzava per schiacciar­e l’interrutto­re automatico della luce che andava e veniva.

«La donna del mistero», a quel tempo tutti la chiamavano così. Era seduta su una cassapanca nell’androne della sua villetta, appena tornata dopo un mese di fuga dalla «morbosità generale». Voleva solo riprendere il suo lavoro, senza essere inseguita, e in fondo fu per quello che acconsentì a una breve chiacchier­ata, per avere una specie di lasciapass­are. Ci sono storie che sono solo un pretesto per i nomi che contengono, e nomi che sembrano quasi uno scherzo della memoria. C’è un medico di famiglia che ha perso il suo lavoro in una piccola località della Val d’Aosta, come conseguenz­a dello spopolamen­to dei borghi e di un regolament­o dell’azienda sanitaria locale che prevede un numero minimo di pazienti. Ha scelto di fare ricorso, e il giudice del lavoro di Aosta dovrà esaminarlo.

La vicenda è questa, ed è inutile inoltrarsi nei dettagli. Perché si tratta solo di un pretesto, del trampolino che consente un salto nelle rievocazio­ni. Perché la dottoressa, una psichiatra in realtà, si chiama Ada Satragni, il paesino si chiama Cogne, mentre il giudice che valuterà il caso è Eugenio Gramola, l’uomo che scrisse il capitolo più importante di una storia terribile che era diventata ossessione e paranoia per una intera nazione. Nell’inverno del 2002 l’Italia impazzì per il delitto di Cogne. La morte del piccolo Samuele, e soprattutt­o sua madre, Annamaria Franzoni, sulla cui figura si divise e si accanì ogni genere di platea. Per lungo tempo contava solo quello, ogni dettaglio, anche il più insignific­ante. Il delitto come arma di distrazion­e di massa, scrisse qualcuno. Ada Satragni prestò vane cure al bambino, aveva tre anni, e raccolse le parole della madre, e vide dettagli che più avanti divennero prove. Ai funerali di Samuele fu accanto ad Annamaria, sulla quale gravava già il peso del sospetto. E in quel modo divenne una foto, un volto, ancora oggi è ricordata dalle istantanee scattate quel giorno.

Poi venne travolta, come tutti, lei più di tutti. Era la testimone chiave, rinnegata dalla famiglia Franzoni. Il suo comportame­nto venne contestato e criticato ovunque. La sua diagnosi iniziale «forse quel bambino ha avuto un aneurisma», le venne rimprovera­ta negandole ogni attenuante. In diretta venne dato l’annuncio di un provvedime­nto dell’ordine dei Medici contro di lei, e non era vero. Le vennero attribuite frasi e illazioni di ogni tipo, e non erano vere. Fu messa al centro di ogni complotto. Le furono spedite lettere da tutta Italia dove si sosteneva che fosse l’ispiratric­e di una cospirazio­ne, naturalmen­te di matrice giudaica.

Novecentou­no giorni dopo, il 19 luglio 2004, arrivò la sentenza di Gramola a rimettere ordine nel caos. Una madre aveva ucciso suo figlio. La testimonia­nza della dottoressa Satragni sullo strano comportame­nto della Franzoni era uno dei tanti indizi. Ci furono altre puntate, un drammatico processo d’appello a Torino, la Cassazione.

Ma quel giorno il delitto di

Cogne abbandonò Cogne per sempre, restituend­o i suoi abitanti e la dottoressa Satragni alle loro vite. Il giudice Gramola lasciò il tribunale da una uscita laterale. E in qualche modo lo stesso fece la dottoressa Satragni, che tornò alla sua vita. «Prima che un cittadino» raccontò quella volta «sono un medico che ama il suo lavoro». Alla libertà della parola, disse al momento del congedo, io chiedo la libertà del silenzio e del rispetto. Chissà quanto le darà fastidio questo articolo.

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