ISTITUZIONI E POLITICHE FISCALI RAFFORZARE O DECENTRARE?
Europa /1 L’Italia può avere un ruolo decisivo nel dibattito sul futuro dell’Ue. Ricordando però che grazie alle scelte monetarie comuni i nostri tassi di interesse sul debito pubblico sono scesi ai minimi storici
La lettera congiunta pubblicata ieri da François Villeroy de Galhau e Jens Weidmann, rispettivamente governatori della Banca centrale francese e tedesca, ha il pregio di ricordare l’importanza del quadro istituzionale nel quale interagiscono le politiche economiche nazionali ed europee, e che questo quadro non può rimanere immutato.
Quando non c’era l’unione monetaria, le istituzioni europee non si preoccupavano più di tanto delle politiche di bilancio dei vari Paesi, perché era principalmente su questi ultimi che ne ricadevano le conseguenze. Il raddoppio del debito pubblico italiano in poco meno di dieci anni, tra il 1983 e il 1992, suscitò ben pochi moniti al confronto di quanto avviene oggi in caso anche di un minimo scostamento dalla traiettoria prestabilita. Il motivo è che prima dell’euro le conseguenze delle politiche di bilancio, come la svalutazione della lira del 1992, l’uscita dal Sistema monetario europeo e la draconiana manovra di aggiustamento per 90 mila miliardi di lire che la seguì, erano in larga parte a carico dei cittadini di ciascun Paese, nel caso specifico degli italiani.
Con l’euro, sebbene le politiche fiscali siano rimaste di competenza degli Stati membri, gli effetti di eventuali squilibri vengono risentiti da tutti, come si è visto nel caso della crisi greca. Una soluzione per ovviare a questo problema avrebbe potuto essere quella di integrare pienamente le politiche fiscali in un solo bilancio comunitario, con la creazione di titoli europei — i cosidetti Eurobond emessi da un tesoro europeo. Ma questa via è stata scartata, principalmente per l’avversione dei governi e dei parlamenti nazionali, gelosi delle loro prerogative. I due governatori, Villeroy de Galhau e Weidmann, la ripropongono oggi come una opzione possibile, ben sapendo che al momento attuale essa è del tutto teorica, perché le resistenze politiche rimangono forti, in tutti i Paesi.
Il ripiego sulle regole e sui vincoli alle politiche nazionali, per evitare deviazioni eccessive delle finanze pubbliche, si è dimostrato altrettanto inadeguato. Come tutte le regole, anche quelle di bilancio sono imperfette, seppur migliorate nel tempo e rese più flessibili. Il sistema ha tenuto in tempi normali, ma non ha retto all’urto della crisi, che ha messo a nudo l’incompiutezza dell’unione monetaria.
Si sono aperte due opzioni. La prima via è quella di «più Europa», rafforzando le basi dell’unione, in particolare con la creazione del Fondo salva stati, politiche monetarie più attive da parte della Bce, in particolare con la promessa di acquisto illimitato di titoli (il così detto Omt) e il Quantitative Easing, fino all’unione bancaria. Questo passo avanti ha determinato una maggiore condivisione dei rischi tra i Paesi dell’unione, che è andata di pari passo con una loro riduzione, anche attraverso il rafforzamento dei vincoli e delle regole sulle politiche nazionali. L’annuncio di Draghi del luglio 2012 di fare tutto il necessario per mantenere l’integrità dell’euro fu possibile solo dopo l’accettazione del fiscal compact, proposto dallo stesso presidente della Bce nel dicembre 2011.
Il parallelismo tra mutualizzazione dei rischi e la loro riduzione attraverso maggiori vincoli nazionali vale anche per l’unione bancaria. Il passaggio a una assicurazione europea dei depositi — l’unica veramente credibile — difficilmente potrà avvenire senza l’adozione di ulteriori misure di contenimento del ris ch i o s ov ra n o e de l l a correlazione con quello bancario. Proseguire in questa direzione rappresenta la via di compromesso possibile tra le due ipotesi estreme indicate nel documento franco-tedesco. Se invece si ritiene che le attuali regole di bilancio siano troppo stringenti e che gli Stati membri debbano recuperare margini di discrezionalità, si deve al contempo rinunciare ad ulteriori passi avanti verso una maggiore mutualizzazione dei rischi. Potrebbero anche essere messi in discussione alcuni pilastri comuni, dalla politica monetaria alla vigilanza bancaria. Vanno lette in questo senso le recenti proposte, ricordate nel citato documento, di re-introdurre clausole automatiche di ristrutturazione del debito pubblico in caso di attivazione del Fondo salva stati, simili a quelle avanzate nel poco fortunato accordo franco-tedesco dell’ottobre 2010 (il cosidetto accordo di Deauville), che avviò la fase di rialzo degli spread sui titoli culminata con la crisi dell’estate del 2011. Un’altra proposta è quella di pesare in modo diverso i titoli di Stato detenuti dalle banche, in funzione del loro rischio, ai fini del calcolo dei requisiti patrimoniali.
La scelta politica cui deve far fronte l’Europa è chiara: o si prosegue nel rafforzamento delle politiche europee, che proteggono dai rischi di instabilità dei mercati, e si accetta però anche di contenere i margini di discrezionalità nazionali, in particolare nel campo della politica di bilancio; oppure, all’inverso, si cerca di ricreare degli spazi per l’esercizio della sovranità fiscale nazionale, rimettendo magari in discussione accordi già stabiliti, ma si rinuncia allo scudo protettivo europeo.
L’Italia può avere un ruolo decisivo in questo dibattito sul futuro dell’Europa, tenendo conto anche dell’interesse nazionale. Al riguardo, può essere utile ricordare che, grazie soprattutto alla politica monetaria europea, i tassi d’interesse sul debito pubblico italiano sono scesi sui minimi storici, consentendo al contribuente italiano di risparmiare circa 20 miliardi di euro all’anno. Ben oltre quanto si possa ottenere da qualche punto di flessibilità di bilancio in più o in meno.