Mentre continua la campagna d’inverno del presidente del Consiglio Matteo Renzi contro la Commissione, l’idea di riunire a Roma i sei Paesi fondatori della Comunità ha partorito un topolino
costruito (con il nostro apporto) su modelli tecnocratici francesi e tedeschi, con il quale a volta facciamo fatica a fare i conti. Secondo il nostro presidente del Consiglio siamo il «secondo grande» dell’Ue: perché gli altri ne prendano atto non bastano le dichiarazioni di principio, ma occorre rafforzare la nostra presenza dentro e intorno alle istituzioni, finalizzandola ad obiettivi precisi. Per quanto indebolita, la Commissione rimane un interlocutore ineliminabile: attaccarla si può, ma è bene farlo avendo ben chiara la strategia — di breve e lungo periodo — e puntando su una politica di alleanze, senza di cui nell’Ue non si va molto lontano.
Ci siamo lasciati prendere dalla tentazione ricorrente di un rapporto privilegiato con Londra. Fra i due Paesi sono possibili intese tattiche su punti specifici — come stavolta è accaduto in materia di mercato e di flessibilità — ma le differenze sono troppo profonde perché si possa parlare di strategie. L’esperienza dovrebbe averci insegnato che il Regno Unito preferirà sempre il rapporto — che giudica paritario — con Parigi e Berlino ad un improbabile asse con noi. La verità è che l’Ue rimane per gli inglesi una costruzione estranea, da utilizzare ai propri fini restandone per quanto possibile al margine, mentre per l’Italia ha sempre rappresentato un fattore fondamentale di stabilità e di crescita.
Chiedendo di cancellare dai Trattati l’impegno per una «unione sempre più stretta», Cameron ha tolto ogni residuo dubbio sulla possibilità di tenere in vita una unione politica a Ventotto ed ha dato un importante, quanto involontario contributo di chiarezza. Si va delineando una Ue articolata lungo due linee autonome e parallele — una politica, basata sull’euro, e una intergovernativa, centrata sul mercato. Essere al cuore della prima resta per noi una priorità assoluta, ma sarà bene fare attenzione. L’Europa dell’euro non riuscirà a decollare subito con tutti i suoi membri e la definizione del rapporto fra i nuovi ins e outs sarà il primo banco di prova dell’impegno dell’Italia. Wolfgang Schäuble è sembrato voler sdoganare, senza parlarne esplicitamente, l’idea di una «Unione neo-carolingia» con una propria moneta e una propria mini-Schengen, con la Francia ma forse senza l’Italia. Che piaccia o meno, è dalla Germania che dovremo innanzitutto passare per avere garanzie contro simili involuzioni.
Basterà per contrastare l’onda crescente di disincanto che si colora spesso di rifiuto dell’Europa? Altiero Spinelli non avrebbe esitato a sparigliare le carte dei Trattati, per cercare di rispondere alle nuove sfide. Dovremmo farlo anche noi, mettendo a frutto la nostra capacità di elaborazione politica senza limitare l’orizzonte ai sei Paesi fondatori, politicamente figli di un’altra epoca. Per dare vita a un progetto capace di definire le «linee rosse» di una Europa credibile, dovremmo saper ascoltare altre voci, che sottolineino le criticità ma indichino anche il futuro possibile del progetto europeo. Cominciando per esempio dalla Spagna.
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