FRAMMENTI DI UNA CLASSICA MODERNITÀ
Che cos’hanno in comune il barone siciliano Lucio Piccolo di Calanovella e il borghese (della terra di Gioacchino da Fiore) Giorgio Mannacio? Intanto che hanno pubblicato il loro primo libro a 55 anni di età e, poi, che entrambi sono stati «scoperti» da due grandi letterati. Piccolo, da Eugenio Montale; Mannacio, da Giovanni Testori.
Il cugino del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa pubblica a proprie spese la plaquette 9 liriche e la invia per posta a Montale; ma non essendo l’affrancatura sufficiente, il Nobel paga una sopratassa di 180 lire. Ragion per cui apre il plico, nonostante gliene arrivino a iosa tutti i giorni e su molti, impilati per sempre, si formi uno strato di polvere.
Letti i versi, la loro «perfezione stilistica» non fa rimpiangere a Montale il piccolo investimento, e decide di far invitare il poeta siciliano al convegno letterario di San Pellegrino. Il resto è storia: nel Centro del Bergamasco avviene la consacrazione di Piccolo che, timidissimo, arriva accompagnato dall’autore de Il Gattopardo.
La stessa cosa, più o meno, avviene con Mannacio. Il poeta spedisce il dattiloscritto di un libro di versi ( Preparativi per tempi migliori) a Testori (con l’affrancatura esatta, però) che lo legge e ne resta entusiasta, tanto da scrivere la prefazione alla raccolta. Perché s’è detto «più o meno»? Perché Mannacio aveva già pubblicato poesie su alcune riviste ( Il Verri, Il Caffè, l’Almanacco dello Specchio) e tre plaquettes di versi che circolavano solo fra gli amici. L’introduzione dell’autore dell’Arialda fa sì che Mannacio abbia un’eco nazionale.
Nella sua poesia, scrive Testori, «ogni certezza viene avvicinata, accerchiata, quindi messa in discussione attraverso un processo lucidissimo e silente; alla fine il destino di quelle certezze è sfaldarsi e cader giù, non solo dalla realtà, ma altresì dal credibile: di venir, insomma, eliminate. Come in un diario, imperdonante, di tali sfaldamenti, di tali eliminazioni, le liriche di Mannacio sono le prove e, insieme, gli atti esecutivi». Quando il libro esce, Testori non c’è più da un paio di mesi. E lo scritto su Mannacio diventa, così, l’ultima testimonianza del grande scrittore lombardo.
Testori parla, fra l’altro, di «atti esecutivi», mutuando il linguaggio giudiziario di Mannacio. Perché il poeta fa parte — o meglio, ha fatto parte — di quella schiera di letterati prestati alla magistratura: Gianrico Carofiglio, Giancarlo de Cataldo, Gianni Simoni, Gennaro Francione, Corrado Calabrò, Raffaele Cantone, Riccardo Targetti, tanto per fare qualche nome. Mannacio, oltre mezzo secolo al Tribunale di Milano, lascia nel 2004 e si dedica totalmente alla poesia. Dopo Preparativi, escono Fragmenta mundi, Vita degli antenati, Dalla periferia dell’impero. L’ultimo, in questi giorni, a 84 primavere: Gli anni, i luoghi, i pensieri (Resine, pp. 82, € 10), presentato da Silvio Riolfo Marengo.
Una sorta di un ritorno alle origini. Il primo libro di Mannacio, infatti, Comete ed altri animali, esce nelle edizioni di «Resine», diretta da Vico Faggi, il quale, come tratto distintivo della rivista ligure, teorizza una «linea classico-moderna». Che, presente allora in Mannacio «per sintesi fulminee in grado di accostare luoghi e tempi lontani, presenze e assenze, sensazioni e ricordi di sensazioni», si ritrova adesso, arricchita da una «ricerca linguistica» e richiami ai classici latini e greci. Ed ecco che il poeta, nota Riolfo, diventa «il cantore di un effuso splendore visivo» e il suo dio, «sempre in minuscolo, si identifica con il destino».
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