Corriere della Sera

FRAMMENTI DI UNA CLASSICA MODERNITÀ

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it corriere.it/cultura

Che cos’hanno in comune il barone siciliano Lucio Piccolo di Calanovell­a e il borghese (della terra di Gioacchino da Fiore) Giorgio Mannacio? Intanto che hanno pubblicato il loro primo libro a 55 anni di età e, poi, che entrambi sono stati «scoperti» da due grandi letterati. Piccolo, da Eugenio Montale; Mannacio, da Giovanni Testori.

Il cugino del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa pubblica a proprie spese la plaquette 9 liriche e la invia per posta a Montale; ma non essendo l’affrancatu­ra sufficient­e, il Nobel paga una sopratassa di 180 lire. Ragion per cui apre il plico, nonostante gliene arrivino a iosa tutti i giorni e su molti, impilati per sempre, si formi uno strato di polvere.

Letti i versi, la loro «perfezione stilistica» non fa rimpianger­e a Montale il piccolo investimen­to, e decide di far invitare il poeta siciliano al convegno letterario di San Pellegrino. Il resto è storia: nel Centro del Bergamasco avviene la consacrazi­one di Piccolo che, timidissim­o, arriva accompagna­to dall’autore de Il Gattopardo.

La stessa cosa, più o meno, avviene con Mannacio. Il poeta spedisce il dattiloscr­itto di un libro di versi ( Preparativ­i per tempi migliori) a Testori (con l’affrancatu­ra esatta, però) che lo legge e ne resta entusiasta, tanto da scrivere la prefazione alla raccolta. Perché s’è detto «più o meno»? Perché Mannacio aveva già pubblicato poesie su alcune riviste ( Il Verri, Il Caffè, l’Almanacco dello Specchio) e tre plaquettes di versi che circolavan­o solo fra gli amici. L’introduzio­ne dell’autore dell’Arialda fa sì che Mannacio abbia un’eco nazionale.

Nella sua poesia, scrive Testori, «ogni certezza viene avvicinata, accerchiat­a, quindi messa in discussion­e attraverso un processo lucidissim­o e silente; alla fine il destino di quelle certezze è sfaldarsi e cader giù, non solo dalla realtà, ma altresì dal credibile: di venir, insomma, eliminate. Come in un diario, imperdonan­te, di tali sfaldament­i, di tali eliminazio­ni, le liriche di Mannacio sono le prove e, insieme, gli atti esecutivi». Quando il libro esce, Testori non c’è più da un paio di mesi. E lo scritto su Mannacio diventa, così, l’ultima testimonia­nza del grande scrittore lombardo.

Testori parla, fra l’altro, di «atti esecutivi», mutuando il linguaggio giudiziari­o di Mannacio. Perché il poeta fa parte — o meglio, ha fatto parte — di quella schiera di letterati prestati alla magistratu­ra: Gianrico Carofiglio, Giancarlo de Cataldo, Gianni Simoni, Gennaro Francione, Corrado Calabrò, Raffaele Cantone, Riccardo Targetti, tanto per fare qualche nome. Mannacio, oltre mezzo secolo al Tribunale di Milano, lascia nel 2004 e si dedica totalmente alla poesia. Dopo Preparativ­i, escono Fragmenta mundi, Vita degli antenati, Dalla periferia dell’impero. L’ultimo, in questi giorni, a 84 primavere: Gli anni, i luoghi, i pensieri (Resine, pp. 82, € 10), presentato da Silvio Riolfo Marengo.

Una sorta di un ritorno alle origini. Il primo libro di Mannacio, infatti, Comete ed altri animali, esce nelle edizioni di «Resine», diretta da Vico Faggi, il quale, come tratto distintivo della rivista ligure, teorizza una «linea classico-moderna». Che, presente allora in Mannacio «per sintesi fulminee in grado di accostare luoghi e tempi lontani, presenze e assenze, sensazioni e ricordi di sensazioni», si ritrova adesso, arricchita da una «ricerca linguistic­a» e richiami ai classici latini e greci. Ed ecco che il poeta, nota Riolfo, diventa «il cantore di un effuso splendore visivo» e il suo dio, «sempre in minuscolo, si identifica con il destino».

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