Hillary Clinton e quel femminismo che non funziona
Faide La capitale dei mali del Sud vive una nuova stagione di delitti sotto gli occhi dei cittadini. Ben vengano i soldati in città ma poi bisogna ripulire i palazzi del potere con un patto democratico e una legge speciale
Perché le ragazze del New Hampshire non hanno votato per Hillary Clinton? Basta fargli due conti in tasca. Lavorano troppo, pagate poco, piuttosto che votare una donna, hanno preferito mandare un segnale antiestablishment.
Napoli è prigioniera di una contraddizione in apparenza misteriosa. Sconfitti e incarcerati i padrini storici e i capibastone della camorra, la capitale dei mali del Sud vive tuttavia una terrificante nuova stagione di delitti, faide, sparatorie proprio in mezzo ai cittadini che, semplicemente, chinano il capo tirando avanti, rassegnati e — come ha sottolineato amaro il questore Guido Marino — silenti. In una quotidianità dolente e sfaldata e, tuttavia, dall’apparenza immodificabile. È una sorta di dimensione post-camorrista quella che si coglie anche da recenti allarmi di magistrati del livello di Franco Roberti (su Repubblica) o Raffaele Cantone (sul Mattino): quasi tutti i clan sono messi in ginocchio da inchieste e pentiti, senza quattrini a causa dei sequestri di beni, con un soldato su due al carcere duro; e però di nuovi clan se ne contano più di cento, così tanti che viene da pensare a piccole paranze del muretto sotto casa. E di nuovi mammasantissima se ne annoverano decine, tutti ragazzini, talvolta bambini, taluni eredi di «nobiltà» criminale, altri carneadi in cerca d’affermazione, sospinti spesso dalle madri, vedove bianche della «cultura» camorrista o vestali della sottocultura del vicolo e della sopravvivenza.
Più che la nuova camorra è la post-camorra, questa: mucillagine di malavita in una delle maggiori piazze europee nello spaccio di cocaina; feroci coriandoli di criminalità: ciò che sembra cogliere solo in parte Angelino Alfano, quando dice a Maria L atella su SkyTg24 che «serve l’esercito» per «far star zitte le pistole», provocando così il disappunto del sindaco de Magistris («militarizzare non serve»). A noi, non ce ne voglia il primo cittadino napoletano, pare indiscutibile che lo Stato debba riprendere il controllo territoriale
Feste nelle ville I pentiti raccontano di «ospitate» di vip o di bellone da rotocalco al costo di 25 mila euro
e che — nell’attesa del famoso esercito di maestri evocato da Gesualdo Bufalino per battere le cosche — sarà bene avere qualche legione di carabinieri (o, in mancanza, qualche reggimento di granatieri) in più per difendere la crescita di quei maestri e dei loro allievi. Tuttavia — e qui s’intravede il limite del ragionamento di Alfano - sembra emergere ormai anche un altro dato: la camorra è diventata «post» in termini di dimensione sociale diffusa, s’è radicata come metodo e abito mentale in tanti giovani napoletani non necessariamente, o almeno, non originariamente camorristi.
Così, delle due, l’una. O i napoletani sono ontologicamente più portati a delinquere, oppure, come pare assai più ragionevole, soffrono del« bisogno» della camorra o, quantomeno, di una soluzione camorristica dei loro problemi nel senso in cui Gaetano Mosca spiegava la mafia ai primi del Novecento, «reputare segno di debolezza o di vigliaccheria ricorrere alla giustizia ufficiale» (noi oggi aggiungeremmo: e reputarlo inutile). Non è indispensabile ripercorrere la storia del Regno delle Due Sicilie e quella dell’Italia postunitaria per sapere che a Napoli di «giustizia ufficiale», come di lavoro «ufficiale» o di
Strategie comuni Una destra repubblicana vera e una vera sinistra riformista dovrebbero lavorare assieme
sanità «ufficiale» c’è sempre stata estrema scarsità. Da cui la facile rendita della camorra, che s’è sempre atteggiata a vero corpo intermedio, a soggetto terzo dispensatore d’opportunità e soluzioni: « Nui nun simmo giacubine/ nui nun simmo realiste/ ce chiammammo camurriste/ iammo ‘nc... a chillo e a chisto », ringhia un guaglione di mano a Eleonora Pimentel nella città che sta per essere espugnata dai sanfedisti e restituita al re Borbone. Tutti gli indicatori raccontano da sempre questo «mondo a parte». E questo pareva il ragionamento di Rosy Bindi, sbranata dai sacerdoti del politicamente corretto quando descrisse la camorra come «parte costitutiva» della società napoletana.
Soldati? Ben vengano. Investimenti? Magari. Ma, ripreso il controllo delle strade, resteranno da ripulire i palazzi delle feste camorriste dove (dicono oggi i pentiti) l’«ospitata» d’un vip o d’una bellona da rotocalco valeva 25 mila euro. E rimarranno da bonificare i Palazzi del potere. Il consenso è inquinato, la società civile guasta (sicché quando Saviano chiede con slancio che Napoli «torni ai napoletani» non si capisce a quali napoletani si riferisca, visto che dai lazzari di Masaniello a quelli di Lauro, Napoli è sempre stata in mano ai napoletani peggiori).
La cartina di tornasole delle nostre qualità istituzionali starebbe forse in un patto democratico. Una vera destra repubblicana e una vera sinistra riformista — se esistessero — dovrebbero porsi il problema di una legge speciale per Napoli (anche come simbolo del Sud in agonia) con provvedimenti che — derogando a federalismi contorti e localismi pelosi — toccassero con coraggio i centri decisionali della città mettendo sotto controllo più accorto i meccanismi di selezione delle classi dirigenti, la loro paralisi che produce mala economia. Sul porto qualcosa si sta muovendo e il caso è esemplare: la città ha perso centinaia di milioni per i veti incrociati di lobby che hanno impedito per anni l’elezione di un presidente e vanificato qualsiasi piano di sviluppo. Sarebbe una miniera d’oro, il porto, ma metà dei suoi edifici muore di degrado e oblio. Forse alla fine i misteri napoletani hanno tutti la stessa soluzione.