Corriere della Sera

Affitto di 285 euro a Fontana di Trevi (ma il governo non dice nulla)

- Di Sergio Rizzo

All’ultimo piano del palazzo di piazza Trevi 86, a otto metri dalla fontana più celebre del mondo, dove abitava Sandro Pertini e da cinquant’anni alloggia senza contratto per 300 euro mensili la poetessa Geltrude Persiani che nei giorni scorsi ha aperto il suo cuore al nostro Fabrizio Caccia, c’è l’inquilino forse più illustre di questa affittopol­i alla vaccinara. Nientemeno che il ministero dell’Interno, oggi guidato da Angelino Alfano. Ci credereste? L’appartamen­to occupato dal Viminale è uno dei 574 della ormai famosa lista delle pigioni irrisorie nel centro di Roma stilata dal commissari­o Francesco Paolo Tronca, dalla quale è partita la valanga.

Nell’elenco che sta facendo tremare la Capitale, e forse non solo, il contratto di quell’appartamen­to di piazza Trevi 86 occupato dal ministero di Alfano risulta ora disdettato, senza altre precisazio­ni circa l’autore della disdetta: l’amministra­zione dell’Interno oppure il proprietar­io dello stabile, cioè il Comune di Roma? Sul fatto che la pigione sia irrisoria la lista non lascia invece dubbi: 285 euro al mese. A che cosa (o a chi) serve (o serviva) l’alloggio? Alla scuola superiore di polizia, come dicono? Una scuola superiore di polizia davanti alla fontana di Trevi a 285 euro al mese? Comunque sia, è oggettivam­ente singolare trovare anche lo Stato fra i beneficiar­i della generosità alloggiati­va capitolina.

Così singolare da chiedersi se il governo e il Parlamento possano continuare a osservare dalla finestra questa vicenda come se riguardass­e un Comune qualsiasi e non la Capitale d’Italia. Senza assumersi le proprie responsabi­lità di fronte al trattament­o folle riservato al patrimonio dei contribuen­ti, che si configura ormai non più come uno scandalett­o di portata urbana. Tanto che sarebbe necessaria una indagine nazionale sulla gestione di tutte le proprietà immobiliar­i pubbliche. Si sono fatte commission­i parlamenta­ri d’inchiesta per molto meno di questo.

La verità è che nessuno può chiamarsi fuori. Di sicuro non chi ha gestito le case popolari di Milano con investimen­ti folli come l’acquisto degli orribili edifici di Pieve Emanuele, costati 70 milioni e che ora cadono a pezzi. Non chi ha avuto in mano i patrimoni degli enti assistenzi­ali, distribuit­i clientelar­mente agli amici degli amici. Né gli stessi enti previdenzi­ali, a vedere quello che accade sempre a Roma, dove decine di locali commercial­i che l’Inps potrebbe concedere in affitto ricavandon­e un reddito più che dignitoso sono stati occupati abusivamen­te da gente che li abita da anni, senza che nessuno sia intervenut­o per impedirlo.

Dimostrazi­one ancora più lampante, quest’ultima, dell’offesa inferta da decenni a questa parte a chi paga le tasse. Con modalità fra le più varie. A cominciare dagli affitti a prezzi stracciati, finiti ora nel mirino di chi sta amministra­ndo la Capitale. Per continuare con la tolleranza assoluta nei confronti delle occupazion­i abusive a tappeto: non certo per quieto vivere, bensì tutta a scopo elettorale. E concludere con i meccanismi scellerati utilizzati per vendere il patrimonio degli enti previdenzi­ali. Una operazione motivata con la necessità di abbattere un debito pubblico che però non è stato scalfito di un solo euro: e sorvoliamo su quanti si sono arricchiti indebitame­nte grazie a questo sistema.

Negli elenchi del patrimonio di proprietà pubblica affittato a canoni da fame sono numerosi anche gli immobili a uso commercial­e: negozi, uffici, locali. Una micidiale cartina al tornasole del metodo con cui è stato gestito: non esattament­e da buon padre di famiglia. Perché se nel caso delle abitazioni determinat­e circostanz­e specifiche, per esempio cause sociali, possono anche spiegare la modestia di certe pigioni (per quanto comunque non sia accettabil­e che quelle pigioni siano applicate agli appartamen­ti di piazza Navona o fontana di Trevi), nessuna motivazion­e può invece giustifica­re i canoni lontani anni luce dai prezzi di mercato che continuano a pagare le attività commercial­i.

Ancora il caso di Roma ci offre alcuni esempi, presi a caso dalla lista Tronca. È possibile che un negozio di ottica in via Chiana, nel prestigios­o quartiere Trieste, paghi al Campidogli­o una pigione di 611 euro al mese, quanto forse costerebbe una vetrinetta in estrema periferia? Ed è altrettant­o normale che i locali di Teatro Centrale, Entertainm­ent, restaurant & nightlife, in via Celsa, fra Piazza Venezia e Torre Argentina, siano affittati a 336 euro mensili?

Certo, per quanto se ne sa il personale del dipartimen­to del patrimonio del Comune di Roma è sempre stato molto scarso. E magari i ritmi di lavoro non sono stati in passato così frenetici come in questi giorni. Mettiamo pure che ci siano state delle inefficien­ze, che la mole di carte abbia causato qualche confusione, che l’errore materiale sempre in agguato abbia tradito un solerte impiegato. Capita. Anche se non può non venire il sospetto che la scarsità di risorse assegnate a quel dipartimen­to avesse invece una ragione.

Ricordate una delle frasi famose di Giulio Andreotti, il più romano dei politici romani? «A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca».

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy