Ecco perché chi non calcola oggi è perduto
L’abilità matematica non è la misura dell’intelligenza di una persona, non di quella globale almeno. È tutt’al più la misura di un certo tipo di adattabilità al mondo esterno, un’adattabilità che oggi, ci piaccia o meno, è diventata cruciale. Una padronanza scarsa degli strumenti rudimentali del calcolo costituisce uno svantaggio più grave che in epoche passate, espone al rischio di essere raggirati in modi impensabili dalla grande complessità nella quale siamo immersi. L’Ocse si complimenta tiepidamente con l’Italia. Siamo fra i Paesi che hanno diminuito la percentuale di «studenti a basso profitto» nell’intervallo tra 2003 e 2012, ma restiamo sopra la media generale, e nei guai se si considerano soltanto i Paesi europei con i quali siamo abituati a confrontarci. I quesiti dei test Pisa sondano un livello minimo che ogni quindicenne «scolarizzato» dovrebbe possedere, ma non parlano davvero dei ragazzi, della loro predisposizione alla matematica e alle altre discipline, quanto piuttosto del sistema nel quale questi ragazzi vengono educati. Può sembrare una precisazione ovvia, eppure non è raro sentir attribuire agli studenti, a una qualche loro misteriosa natura deviata, gli squilibri della nostra organizzazione. Quasi ogni grafico nel rapporto Ocse stimola una domanda interessante e, talvolta, indica la strada per un possibile miglioramento. Alcuni esempi: 1) avere subito una bocciatura influisce in maniera nefasta sulla probabilità di diventare uno studente a basso profitto (il paradigma bocciare-per-correggere andrebbe rivisto?); 2) la pressione delle famiglie sui ragazzi è più determinante in Italia che nella maggioranza degli altri Paesi (la scuola non è più in grado di costruire da sé gli elementi di motivazione necessari?); 3) gli studenti a basso profitto sono quasi unanimi nel denunciare che i loro sforzi in matematica, spesso paragonabili a quelli dei «più bravi», non si traducono in un rendimento proporzionale (la matematica è insegnata male? C’è chi lo sostiene da anni e ha proposto tecniche nuove, ma poco, quasi nulla è cambiato. In Italia l’immutabilità dei programmi ministeriali è un dogma fra i più severi). Ciò che è certo è che in Italia il divorzio di troppi allievi con la matematica, così come con la lettura, avviene in età molto precoce, ben prima dei 15 anni. La matematica diviene sinonimo di frustrazione e inadeguatezza, per sempre. Ora che la «buona scuola» è fatta (è fatta?) sarebbe il momento di stampare i grafici dell’Ocse, di domandare a qualche statistico di decrittarli per noi e di meditare su come eliminare qualche altro punto percentuale in tempo per la prossima rilevazione.