L’eredità inattesa dell’insopportabile scrittrice di fiabe
Un romanzo che fiorisce di storie, confidenze, confessioni, segreti, epistole, perfino favole per bambini, perché in fondo ogni storia è come un nome che diamo alle cose. Si intitola proprio così il nuovo libro di Beatrice Masini, I nomi che diamo alle cose (pubblicato da Bompiani): una narrazione con un incedere intenso e un passo riflessivo, nella quale ambienti, paesaggi e sentimenti sono descritti con un’esattezza acuta — la precisione però di uno sguardo e non di una fotografia. Anna, la protagonista, lavora nell’editoria, e nella veste di editor e revisore di testi ha conosciuto una famosa scrittrice per bambini (una finezza autoironica, dal momento che proprio Beatrice Masini è anche una nota autrice per l’infanzia, nonché traduttrice della saga di Harry Potter), la temibile, scostante e insopportabile Iride Bandini («un mostro», la definisce il figlio Gregorio nella prima pagina del libro), che ora a sorpresa le ha lasciato in eredità una piccola casa in campagna, sul lago di Garda. Il lago, sia detto per inciso, è lo stesso da cui era partita Bianca, la protagonista del precedente libro della Masini, Tentativi di botanica degli affetti. Ma qui l’ambientazione è contemporanea, come contemporanei sono i conflitti e le durezze con cui i personaggi hanno a che fare. Infatti l’eredità lasciata dalla scorbutica Bandini non è soltanto quel che sembra. E a poco a poco il lettore comincia a capire perché proprio Anna, in fondo un’estranea totale, è l’unica in grado di scoprire che cosa si nasconde nella casetta ereditata e in tutte le case intorno: la villa del brusco Gregorio, la stanza della vecchia segretaria Umile, le terre del factotum Tiziano, il belvedere tutto vetri e design dell’arabo Hamid. L’estranea Anna, infatti, ha un dono — che è quello di tutti gli editor, e anche di molti scrittori, e soprattutto dei lettori — che è saper ascoltare, l’ha capito bene la vecchia scrittrice prima di morire. E Anna non deluderà le aspettative, perché è nella sua natura e nel suo lavoro rifinire i romanzi altrui, trovare la parola precisa, dare i nomi alle cose, un compito che si porta a termine «ascoltando», aprendosi alle storie. «Mettersi in ascolto è come vagare in un’immensa biblioteca a cielo aperto», riflette Anna, «e per forza ci vuole un tetto di niente, perché non ci sono limiti, non si possono chiudere in una stanza o in un palazzo le storie delle cose del mondo». Così, Anna ascolterà la storia di un vecchio amore condiviso, scoprirà misteri sconosciuti ai paesani troppo chiusi e diffidenti, svelando a poco a poco anche se stessa e il suo passato di dolore, e garantendo forse anche alla scrittrice «terribile» ormai defunta una sorta di restituzione. La scrittura di Beatrice Masini in questo romanzo pacato ed elegante è quella di un’ascoltatrice (a sua volta) attenta, degli uomini e della natura. Si tratti della luce di certi cieli del lago, oppure dell’espressione di un pensiero laterale sul volto di un personaggio, è questa la cifra intensa del libro, insieme ad alcune belle favole che la Masini regala qua e là nel racconto: e cioè la capacità di cogliere sfumature inusuali («c’era un bel cielo a strappi in una giornata forte») e farle balenare sulla pagina con forza, eppure senza ridondanze, naturali come i lampi nella campagna.
Beatrice Masini (1962)
«I nomi che diamo alle cose» (Bompiani, pagine 214, € 17) di Beatrice Masini sarà presentato oggi a Milano, al Circolo dei Lettori Fondazione Pini, in un incontro con l’autrice e con Andrea Bajani (ore 18.30, corso Garibaldi 2)