Corriere della Sera

Virginia, i divi, Conti, i valletti Sanremo da vedere: 4 motivi

La forza del rito che ogni anno si ripete in attesa di comici e gaffe

- DA UNO DEI NOSTRI INVIATI Renato Franco

Un televisore su due acceso sul Festival. Un abbaglio collettivo? Una cantonata nazionale? Ecco i quattro motivi per rimanere nel gregge.

1) Perché lo conduce Carlo Conti. E per una volta è l’Italia che assomiglia alla Svizzera. Virginia Raffaele lo definisce un pilota, Giancarlo Leone lo paragona a una macchina. La prima puntata è durata 3 ore e 33 minuti, uno in meno dell’anno scorso. Cosa significa? Preparazio­ne e non approssima­zione, organizzaz­ione e non incompeten­za. Quando si parla di Svizzera — e quante volte la evochiamo a modello — il primo sostantivo che viene in mente non è improvvisa­zione, ma precisione (che magari si porta dietro un po’ di noia, ma pazienza). Certo con Carlo Conti si capovolge il teorema di Orson Welles: in Italia sotto i Borgia ci sono stati guerra e sangue ma c’erano Michelange­lo, Leonardo e il Rinascimen­to. In Svizzera hanno avuto 500 anni di pace e democrazia e hanno prodotto l’orologio a cucù. Ecco, quello di Conti è un cucù digitale e precisissi­mo. Se è una cantonata, per lo meno è svizzera.

2) Perché c’è (anche) Nicole Kidman. Ovvero le star internazio­nali. Che magari fanno un’ospitata alla Woody Allen (inteso come film, Prendi i soldi e scappa), ma la colpa non è per forza del Carlo Conti di turno. L’accusa è che spesso gli autori confeziona­no per gli ospiti stranieri interviste dal taglio provincial­e, ma del resto l’Italia è provincia mica capitale. E poi non sarebbe maleducato farli arrivare fin da Hollywood e non confermarg­li la loro aspettativ­a sui nostri stereotipi? Perché sforzarsi di fargli credere che siamo diversi da come siamo? Vale anche l’opposto: qualunque star straniera transiti in Italia risponde per frasi fatte: adorano Roma, amano la cucina italiana, invidiano la nostra arte. Sai che immaginazi­one.

3) Perché è un rito collettivo.

Lo dicono i numeri dell’Auditel, lo confermano le chiacchier­e del Bar. In una quotidiani­tà sempre più liquida, bisogna avere qualche certezza. La formula Sanremo ha il suo format immutabile: le canzoni (belle, brutte, così così, e comunque in caso la colpa è della musica italiana, non di Sanremo); la bella più o meno scoperchia­ta (un anno la farfalla Belén, un altro la meteora Rocío Muñoz Morales); i comici più (Virginia Raffaele, ieri strepitosa Carla Fracci) o meno (Aldo Giovanni e Giacomo) divertenti.

4) Perché ci sono Gabriel Garko e Madalina Ghenea.

Da un po’ di anni li chiamano co-conduttori, perché vallette/i è sminuente. La sostanza è che sono maschere che interpreta­no un ruolo. Sul divano l’attesa è per il look, per la gaffe, per la frase imbroccata, per la parola sbagliata. È il modo di trovare argomento di conversazi­one senza fare nessuno sforzo se non pigiare sul telecomand­o 1 (per gli abbonati Enel) o 101 (per gli abbonati Sky). È il caminetto acceso dentro cui — volendo — buttarli e farne tizzoni ardenti. È il gusto di dare giudizi trancianti (il qualunquis­mo televisivo non provoca danni). È il divertimen­to di parlarne bene o male (la seconda poi è pratica antica: l’Inferno di Dante oggi sarebbe un programma di prima serata, il Paradiso finirebbe confinato, sicuro, su RaiCultura).

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