Corriere della Sera

IL PAESE DELLE LEGGI IN OSTAGGIO

- Di Sergio Rizzo

La prova di quanto sia difficile in Italia fare certe riforme è nei cassetti della commission­e Giustizia della Camera. Lì, in attesa della seconda lettura parlamenta­re, è sepolta una legge approvata dal Senato quasi due anni fa: martedì 11 marzo 2014. Si tratta di un provvedime­nto in grado di toccare nervi sensibili, perché regolament­erebbe in modo ben più rigoroso di oggi il rapporto fra magistrati e politica. Stabilisce, per esempio, che il magistrato non si possa candidare dove ha esercitato nei cinque anni precedenti. E in ogni caso può farlo solo se è in aspettativ­a da almeno sei mesi. Ancora: i giudici non eletti non accedono per cinque anni a uffici della stessa circoscriz­ione elettorale. Mentre gli eletti non possono tornare a svolgere le funzioni ricoperte prima di candidarsi. Hanno solo facoltà di scelta fra Avvocatura statale, ministero della Giustizia o Corte d’appello, ma con l’inibizione territoria­le quinquenna­le.

Il minimo sindacale, insomma, in un Paese ammorbato dalle polemiche sull’uso politico dei tribunali. E che su questo esista una condivisio­ne generale, lo stanno a dimostrare le 25 firme di senatori di centrodest­ra e centrosini­stra al testo unificato della legge uscita dal Senato. Il che avrebbe lasciato supporre un percorso spedito anche alla Camera. Invece no.

Il testo è arrivato a Montecitor­io il 13 marzo 2014; l’esame è cominciato il 24 giugno successivo e da allora la commission­e Giustizia si è riunita con quel provvedime­nto all’ordine del giorno soltanto quattro volte. L’ultima, il 16 dicembre 2015, nove mesi addirittur­a dopo la precedente riunione del 12 marzo. Da allora sono trascorsi altri due mesi e tutto tace.

Tutto ciò dovrebbe far riflettere innanzitut­to chi si ostina a difendere senza se e senza ma il bicamerali­smo perfetto come fosse l’estrema garanzia del sistema democratic­o e non invece, quale purtroppo spesso si è dimostrato, un comodo meccanismo per inceppare le riforme. Ma questa storia mette in luce un aspetto forse ancora più rilevante delle nostre « non regole » istituzion­ali. Presidente della commission­e Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, onorevole del Partito democratic­o, è infatti un magistrato. Vale a dire esponente di quella particolar­e sottocateg­oria, i giudici scesi in politica, colpita proprio dalla legge di cui stiamo parlando.

Un dettaglio come tanti analoghi, nel nostro Parlamento, sempre liquidati con troppa sufficienz­a. Tanto è vero che nella medesima commission­e Giustizia presieduta da un magistrato, siedono ben 26 avvocati (su 44 membri!) che potrebbero lì, in teoria, scrivere leggi a vantaggio dei propri assistiti. Come del resto già avvenuto in passato. Dettagli ritenuti insignific­anti, che invece segnalano con fragore l’assenza di uno dei principi fondamenta­li della politica: l’opportunit­à di certe scelte. Nessuno può vietare a un giudice di candidarsi alle elezioni, ovvio. Sarebbe contro la Costituzio­ne.

Ma è opportuno che a un magistrato politico sia affidata la guida della commission­e Giustizia? E che la maggioranz­a dei suoi membri sia composta da avvocati in attività? I cittadini non possono sapere se in casi come questo, frequentis­simi, esistano reali conflitti d’interessi. Ma devono pretendere che ogni loro rappresent­ante sia al riparo dal pur minimo sospetto. Ecco perché la forma, certe volte, è anche sostanza.

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