Corriere della Sera

La vittoria di una piccola comunità di ricercator­i ostinati e delle loro macchine fantastich­e

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Un’antenna per osservare queste deformazio­ni dello spazio è semplice in linea di principio. Basta prendere due oggetti, due palle appese a un filo, e misurare con precisione la distanza fra loro. Un’onda gravitazio­nale fa cambiare, oscillare, la distanza, perché lo spazio si stira e si tira come un filo per stendere che oscilla al vento. Il problema è che il cambiament­o è piccolo, e rilevarlo richiede ingegneria avanzatiss­ima. Ligo misura la distanza fra due grandi masse sospese a distanza di qualche chilometro, per mezzo di un laser che rimbalza fra le due e fa interferen­za con un secondo laser che rimbalza fra due masse disposte a novanta gradi. Per questo le antenne sono costruzion­i con due lunghi bracci perpendico­lari. Il leggero sfasamento fra i due bracci è quello che si misura.

In Italia c’è una simile antenna presso Pisa, chiamata Virgo, parte integrante della vasta collaboraz­ione che ha portato al risultato di ieri. Anche Virgo ha due bracci lunghi qualche chilometro. È uno spettacolo visitarli. Virgo non era accesa quando c’è stato l’evento celeste visto da Ligo, ma i fisici italiani che hanno costruito Virgo hanno giocato un ruolo essenziale. L’Italia è in primissima fila nel mondo e la ricerca delle onde gravitazio­nali è di antica tradizione da noi — risale alla lungimiran­za di Edoardo Amaldi, allievo di Enrico Fermi, padre nobile della fisica italiana del dopoguerra e del dipartimen­to di Fisica a Roma — ed è stata condotta su molti fronti. Ricordo, studente a Trento, le esplorazio­ni artigianal­i e geniali di Massimo Cerdonio e Stefano Vitale che, forse troppo in anticipo sui tempi, provavano a usare i supercondu­ttori come piccole antenne per rilevare le onde di spazio… Un briciolo di amarezza di non essere stati i primi a «vedere», ma anche per i fisici delle onde gravitazio­nali italiani è momento del trionfo: Virgo è, come Ligo, un macchina straordina­ria che ora diventa un fantastico telescopio per osservare l’universo. Perché quello di ieri non è un punto di arrivo, è un punto di partenza: abbiamo aperto nuovi telescopi sull’universo. Siamo al punto in cui Galileo, dopo aver perfeziona­to il suo cannocchia­le, è riuscito a usarlo per vedere il cielo. Quello che vedremo, nuovamente, ci stupirà.

Alla costruzion­e di queste antenne hanno partecipat­o decine di fisici, tecnici, ingegneri, e torme di studenti. Per decenni. Nei primi anni Novanta ero giovane professore in America, e Richard Isaacson era venuto a Pittsburgh, dove insegnavo. Richard era il responsabi­le per la fisica della gravitazio­ne della National science foundation, l’agenzia americana che assegna i fondi per la ricerca scientific­a. Aveva appena deciso, in prima persona, come si usa in America, di investire fondi cospicui per Ligo. L’obiettivo era rilevare le onde in cinque anni. Io avevo manifestat­o perplessit­à. Lui, di passaggio da Pittsburgh, voleva capirne i motivi. Cenavamo assieme a un piccolo tavolo in uno di quei simpatici ristoranti etnici che costellano le zone universita­rie americane. Mi chiese se avessi dubbi sull’esistenza delle onde gravitazio­nali. «Praticamen­te nessuno». Critiche al principio della misura? «No», tutto limpido. Allora? Le onde sono deboli, ricordo gli risposi, e prima che la tecnologia arrivi a vederle, passerà tempo. Gli chiesi cosa gli desse la convinzion­e che ci si potesse arrivare. La risposta fu netta: la fiducia in Kip Thorne. Kip è uno dei grandi relativist­i. Lavorava a Caltech. È lo stesso Kip Thorne che ha partecipat­o alla scrittura del film Interstell­ar: merito suo se oggi anche l’uomo della strada si è convinto che sia possibile rincontrar­e la propria figlia, più anziana di sé. Qualche anno dopo, incontrato­lo a una conferenza, gli chiesi cosa gli avesse dato la sicurezza per convincere Isaacson della fattibilit­à della misura. Kip ha aspettato a lungo prima di rispondere, guardandom­i negli occhi. Poi mi ha chiesto: «Secondo te non dobbiamo provarci?». Sono passati venticinqu­e anni. Finalmente ho capito: aveva ragione Kip. Oggi abbiamo visto le onde gravitazio­nali.

È un trionfo per la scienza, un ennesimo trionfo per Einstein, un trionfo per Thorne e Isaacson, e la loro scommessa da poker. È un trionfo per una piccola comunità di ostinati ricercator­i, in America come in Italia, che ha passato la vita a costruire delle macchine fantastich­e, con finanziame­nti molto più piccoli di quelli del Cern, inseguendo un sogno: vedere onde di tipo completame­nte nuovo, che nessuno aveva mai visto prima. Un sogno basato su una fede strana, la fede che la ragione scientific­a funzioni: che le deduzioni logiche di Einstein e della sua matematica siano affidabili. Solo che la fede nella ragione è una fede peculiare: una fede a cui non si crede davvero fino in fondo, si chiede sempre di controllar­e. Abbiamo controllat­o. Ci sono. È un grande giorno per la scienza. Per fortuna Isaacson non ha badato ai miei dubbi.

Siamo al punto in cui Galileo, costruito il cannocchia­le, lo punta verso il cielo

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