Corriere della Sera

L’AMERICA IN MEDIO ORIENTE FARÀ ANCORA DA ARBITRO

Dopo l’accordo sul nucleare con l’Iran cambierann­o i destini di quest’area infiammabi­le, segnata da antichi conflitti Ma a prescinder­e dal nuovo presidente, gli Usa confermera­nno il loro ruolo ormai consolidat­o di «riequilibr­atore esterno»

- Di Francesco Maria Greco

L’accordo sul nucleare iraniano, entrato nel vivo sul tema sanzioni qualche settimana fa, rappresent­erà la cartina di tornasole della politica estera americana in Medio oriente e dei conseguent­i assetti geopolitic­i.

Al cuore dell’accordo c’è una transazion­e fra una moratoria al programma nucleare di Teheran per 10-15 anni e la revoca delle sanzioni.

Cosa accadrà fra 15 anni è una totale incognita: si possono solo ipotizzare le mosse dell’Iran nell’immediato futuro per valutare se l’accordo creerà maggiore stabilità o instabilit­à in un’area sconvolta da conflitti senza fine. Un futuro che non sembra più giocarsi sulla questione palestines­e ma sulla partita per la preminenza regionale fra Riad e Teheran, ammantata dalla narrativa dello scontro religioso-comunitari­o fra sunniti e sciiti.

L’Arabia Saudita, che già gridò al tradimento quando si scoprì che nel 2012 gli americani avevano avviato contatti segreti con Teheran, ha di fronte a sé diverse opzioni. A medio termine potrebbe avviare, con l’aiuto del Pakistan, un proprio programma nucleare entro gli stessi limiti previsti dall’accordo con l’Iran; nell’immediato potrebbe incrementa­re il sostegno a forze sunnite che combattono gli alleati dell’Iran e infine ricorrere a qualche gesto eclatante.

Quest’ultima ipotesi ha trovato conferma nell’esecuzione del carismatic­o leader sciita Al- Nimr proprio due settimane prima dello stop alle sanzioni: un chiaro segnale inviato anche a Washington. In questo senso i rivali di Obama affermano che l’America sta perdendo un alleato, il regno saudita, senza trovare un amico nel regime iraniano. E, in effetti, sarebbe illusorio pensare che Teheran apporti sostanzial­i modifiche alla sua politica estera: un riavvicina­mento agli Stati Uniti o un atteggiame­nto più aperto verso Israele o l’abbandono della sua postura «rivoluzion­aria» anti occidental­e e anti sunnita sarebbero la negazione del Dna khomeinist­a post 1979.

Ma nulla fa presagire che l’accordo induca l’Iran ad una politica più aggressiva negli scacchieri in cui operano i suoi alleati sciiti: Iraq, Libano, Bahrain, Yemen, Siria; né appare probabile che si metta ad orchestrar­e attacchi contro Israele tramite Hamas, Hezbollah o Jihad Islamica Palestines­e. Riad e i partner del Golfo temono che l’accordo 5+1 costituisc­a per gli Usa l’alibi per giustifica­re un drastico disimpegno dalla regione.

Come che sia Washington dovrà trovare in tempi brevi un modo per riequilibr­are i suoi rapporti con il mondo sunnita: un meccanismo volto a gestire la rivalità irano-saudita per non vanificare i positivi effetti dall’accordo nucleare.

Nell’immaginari­o collettivo Riad ha preso il posto di un Iran che nel 2002 Bush annoverava nel trinitario Asse del male (con Corea del Nord e Iraq), ma non bisogna dimenticar­e che l’Arabia ha ai suoi confini Paesi dominati in tutto o in parte da regimi sciiti. Quanto al presunto disimpegno americano dalla regione, occorre riportare il quadro alla sua reale dimensione storica. Il coinvolgim­ento degli Stati Uniti fra il secondo

dopoguerra e l’attacco alle Torri gemelle è stato quasi sempre indiretto: dall’indipenden­za israeliana, a Suez, alle guerre dei sei giorni e del Kippur, al conflitto Iraq-Iran. La missione in Libano nel 1983 fallì rapidament­e e la prima guerra del Golfo fu condotta alla guida di un’amplissima coalizione.

Il containmen­t dell’Iran khomeinist­a fu poi affidato ai Sauditi e agli Stati del Golfo, ma negli ultimi dieci anni sono subentrati due fattori dirompenti: lo shale gas, che ha ridotto la dipendenza strategica dalla regione araba e un jihadismo fuori controllo sviluppato­si all’interno dell’Arabia Saudita e dei suoi vicini, Paesi sui quali, a differenza che in passato, le pressioni americane hanno avuto scarso successo.

I rispettivi interessi strategici ormai non coincidono più. Ove poi ci fosse un massiccio intervento americano sul terreno contro l’Isis, la quasi certa vittoria militare comportere­bbe l’onere della successiva stabilizza­zione e ricostruzi­one. È per questo che, quale che sia il vincitore alle prossime presidenzi­ali, gli Usa non potranno che confermare il ritorno al normale ma insopprimi­bile ruolo di off shore balancer (riequilibr­atore «esterno» ) .

Assetto geopolitic­o Un futuro che non sembra più giocarsi sulla questione palestines­e ma sulla partita per la preminenza regionale fra Riad e Teheran

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