Corriere della Sera

L’IRRINUNCIA­BILE DELLA SCUOLA PER MAGISTRATI

AUTONOMIA

- Di Valerio Onida

Caro direttore, come era forse prevedibil­e, la polemica nata nelle mailing list dei magistrati, e proseguita sui giornali, sull’incontro che avrebbe dovuto avere luogo presso la Scuola della Magistratu­ra, nell’ambito di un corso sulla «giustizia riparativa» con le «testimonia­nze» (non lezioni) di tre familiari di vittime del terrorismo ( Agnese Moro, Manlio Milani, Sabina Rossa) e di due ex terroristi dissociati e da tempo reinseriti nella società (Adriana Faranda e Franco Bonisoli), non ha prodotto solo lo spiacevole annullamen­to in extremis dell’incontro medesimo. Essa ha fatto levare voci, anche autorevoli (come quella di Luca Palamara, membro del Csm, sul Corriere dell’8 febbraio) che chiedono di eliminare o di ridurre l’autonomia della Scuola e di ricondurre la formazione dei magistrati direttamen­te sotto il controllo del Consiglio Superiore.

Che la Scuola non fosse da tutti amata nell’ambito della magistratu­ra era chiaro fin dall’inizio: nata nel 2006 da una legge promossa dall’allora Guardasigi­lli Castelli, con l’impronta «leghista» delle tre sedi previste (Nord, Centro e Sud, poi ridotte a una), rivisitata sotto il profilo normativo nel 2007 (Guardasigi­lli Mastella), e per cinque anni rimasta sulla carta, solo nel novembre 2011 — ministro della Giustizia Paola Severino — poté avviare la propria attività fra lo scetticism­o generale, senza avere ancora né sedi, né personale, e solo dall’ottobre 2012 poté dare inizio ai propri corsi. Quattro anni di intensa attività hanno mostrato che non solo era possibile, ma era utile avere la Scuola. Il dialogo e la collaboraz­ione con il Consiglio Superiore e con il ministro (gli organi a cui risalgono anche le nomine dei componenti del direttivo della Scuola) non sono mai mancati. Essa formula i propri programmi tenendo conto, come prevede la legge, delle linee programmat­iche dettate dal Consiglio e dal ministro, ma è poi autonoma nella organizzaz­ione dei corsi e nella scelta dei docenti, in un quadro di apertura e di pluralismo culturale e scientific­o. In ognuno degli scorsi quattro anni cinque-seimila magistrati, di nuova nomina e già in servizio, si sono avvalsi della sua attività formativa: i partecipan­ti, ogni volta invitati ad esprimere le proprie valutazion­i anonime, hanno espresso in genere largo apprezzame­nto sui contenuti dei corsi. Anche il corso in questione, per quanto ne so, ha visto largamente prevalenti le opinioni di magistrati partecipan­ti che dissentiva­no rispetto all’annullamen­to dell’incontro «incriminat­o». Discutere di «giustizia riparativa», in un contesto di grande serietà scientific­a e culturale, con docenti autorevoli, e anche ascoltando testimonia­nze di chi da tempo ha condotto esperienze significat­ive in questo campo, era ed è infatti pienamente conforme alle finalità della Scuola.

L’autonomia di questa è necessaria: la formazione, iniziale e continua, dei magistrati è chiamata a fornire ad essi strumenti culturali e occasioni di confronto affinché nel «servizio giustizia» sia non solo garantita l’indipenden­za del giudiziari­o dagli altri poteri, ma sia anche assicurata la necessaria apertura alla società e alle sue esigenze. Una formazione solo tecnico-giuridica, o solo autorefere­nziale, «di categoria», non può servire allo scopo. La Costituzio­ne ha voluto che la magistratu­ra avesse un suo governo autonomo ( il Csm) per sottrarla alle indebite influenze di altri poteri, ma non ha voluto che essa si costituiss­e come un «corpo separato»: tale invece rischiereb­be concretame­nte di essere se la formazione si chiudesse verso l’esterno e finisse per asservirsi strettamen­te a logiche di categoria o alle maggioranz­e «politiche» che si formano nel Consiglio Superiore.

Ex presidente della Scuola superiore della magistratu­ra

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