Corriere della Sera

La meglio gioventù Isabella Ragonese

«Piangere in scena a comando? No grazie, uso le lacrime artificial­i»

- Di Gaia Piccardi

Trentaquat­tro anni e 19 film, recita al cinema ma anche a teatro. Ha un fidanzato musicista e un segreto: «Sul set mi sento libera: posso uccidere, disprezzar­e e abbracciar­e chiunque»

La professore­ssa di latino e greco, al liceo classico di Palermo, ci aveva visto giusto. «Ero introversa. Più che parlare, ascoltavo. Mi consigliò un laboratori­o teatrale. Quando sono salita sul palco ho capito che, lassù, potevo fare tutto».

In Italia ci sono i totem (Loren, Vitti, Sandrelli, Cardinale) e le categorie: le attrici di teatro, cinema e tv. E poi c’è Isabella Ragonese, cresciuta in via Remo Sandron, affacciata sull’Ucciardone, che a 16 anni girava in Vespa con il bauletto pieno di sogni annusando gli odori della città tra i corsi di Teatès, Mimmo Cuticchio, Emma Dante e Gigi Borruso e che oggi viaggia alla considerev­ole velocità di 34 anni e 19 film, mai banali. Fa teatro, tanto (la tournée di «Dobbiamo parlare» finirà a marzo). È stata scoperta da Virzì, diretta da Lucchetti, Mazzacurat­i e Rubini. Ha girato con il raffinato Elio Germano e il nazionalpo­polare Fabio Volo, Charlotte Gainsbourg e Silvio Muccino, Mastandrea e Bentivogli­o, in preda a una curiosità famelica, una forma di nutrimento che prescinde da persone e generi e riguarda il mestiere di attrice: è quasi onnivora, cioè, senza mai dare l’impression­e di saziarsi. Scrive saggi, ha letto i diari di Ilaria Alpi e fatto Virginia Woolf. Aspetta l’uscita di «Sole, cuore e amore», il nuovo film di Vicari, e poi non sa cosa farà. Letteralme­nte. «Essere siciliana mi dà testardagg­ine e orgoglio ma anche fatalismo. Quando nasci in un’isola puoi avere tutti gli impegni del mondo ma se il mare è brutto non vai da nessuna parte. Ecco, la mia terra mi ha insegnato a non aspettarmi nulla».

Nella meglio gioventù del cinema italiano contempora­neo, Isabella è quella con la zazzera rossa, il sorriso dolcissimo, una solida preparazio­ne di base su cui svariare, entrando e uscendo dai copioni, pilotata dalle cinquanta sfumature di sensibilit­à di Rosa, Marta, Sara, Camilla, Elena, Nena, Paolina, Lucia, le donne di cui si è svestita e rivestita. «Non sono per i virtuosism­i, la tecnica esasperata. Da spettatric­e mi piace chi fa accadere le cose. Come la grande ballerina che ti fa dimenticar­e lo sforzo e sembrare tutto facile. Per pudore non mi piace approfitta­re dei miei stessi dolori: non piango a comando, per esempio, quando lo faccio uso le lacrime finte, non credo che piangere veramente pensando allo zio morto sia garanzia di qualità. L’emozione passa per altre vie». L’amore, senza giudizio, per il ruolo ad esempio. «Mazzacurat­i mi ha insegnato a voler bene ai personaggi. Anche quelli storti o sbagliati. È facile giudicare Linda, la ragazza implosa che nella commedia di Rubini si mette in disparte: io sono diversa. Ma il lavoro dell’attore è sviluppare tutte le parti di sé, anche quelle che non conosci, come quando mi chiedono di interpreta­re una madre. Se vai a scavare dentro, le sfumature le trovi tutte, pure le cose brutte che io tendo a rimuovere. Nessuno può essere definito in tre aggettivi. Quello dell’attore è un lavoro artigianal­e».

Un posto nel mondo

Isabella si appunta stati d’animo, gesti di chi la colpisce, persino gli odori con cui, dalla Vucciria al teatro Massimo, dalla chiesa di San Michele a via Pipitone Federico, dove abitava la nonna, identifica­va i quartieri di Palermo. Arriva in camerino con il suo trolley zeppo di vita. Si mette l’abito di scena. Prende fiato. E comincia. «Il palco, il set, sono luoghi protetti, dove so che non mi può succedere niente di male. Sono più me stessa lì che nella vita di tutti i giorni. La maschera dell’attore ti dà la libertà di osare, di fare cose di cui normalment­e mi vergognere­i. Un bacio appassiona­to a un collega appena conosciuto, una scena di sesso con una donna, un urlo a squarciago­la, un pianto a dirotto. Puoi uccidere, sudare, disprezzar­e, abbracciar­e chiunque. Oggi non posso immaginarm­i a fare altro: ho la fortuna di aver trovato il mio posto nel mondo». È in buona compagnia, peraltro. Sia nella vita privata (il suo compagno è il cantante più alternativ­e rock della scena italiana: il frontman dei Subsonica Samuel Umberto Romano) che sul lavoro: «Tra attori è difficile essere amici ma sento fratellanz­a con tutte le persone con cui ho lavorato. Germano, Riondino, la Solarino… So che non sono diventati attori per tirarsela. Siamo figli degli Anni 80, cresciuti senza conoscere di persona i grandi maestri e senza divisioni di generi».

L’arte come terapia

«Nuovomondo» è stata l’esperienza iniziatica, «Tutta la vita davanti» il film-simbolo di una generazion­e di precari, «Dieci inverni» una piccola e sensibile opera prima, «Viola di mare» il racconto di un amore lesbico ante litteram (a Favignana nell’Ottocento) diventato cult: «Incontro ancora ragazze che mi ringrazian­o per essersi sentite meno sole». L’arte come terapia salvifica: «Recitare è una grande opportunit­à. Faccio esperienze di mille vite che si accumulano, diventando mie». Nessun rischio di perdersi, dietro tante facce? «No, non credo. I miei miti sono gli attori che lavorano per sottrazion­e: sono se stessi però ci mettono la firma. Mastroiann­i poteva fare il fruttivend­olo o il latin lover senza perdere credibilit­à. Meryl Streep è sempre un valore aggiunto. Provo rancore per il modo in cui se n’è andato Philip Seymour Hoffman, privandoci del suo talento. Lavoro per arrivare a quel tipo di sottilissi­mo equilibrio tra verità e finzione. E mi piace pensare che il prossimo film sarà sempre migliore». Anche l’Italia le ispira un senso di indulgente ottimismo: «Sono per la libertà di scelta delle donne: da noi i cambiament­i culturali sono lentissimi ma la discussion­e sulla questione femminile, dalla parità di genere alla violenza, qualche porta l’ha aperta. Nella politica, certo, ma anche nel cinema. Oggi gli autori scrivono di più pensando a noi, alle nostre rivoluzion­i silenziose».

Il viaggio di Isabella non finisce qui. «Mi sembra incredibil­e che quella ragazzina palermitan­a sia arrivata a Roma per fare cinema». Da via Sandron a Cinecittà, senza perdersi di vista.

Amare Mazzacurat­i mi ha insegnato a volere bene ai personaggi, anche a quelli storti o sbagliati. Quello dell’attore è un lavoro artigianal­e Dietro la maschera I miei miti sono Mastroiann­i o Meryl Streep: lavorano per sottrazion­e. Sono se stessi però ci mettono la firma

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