Corriere della Sera

Croce: la libertà è lotta perenne Testimone delle tragedie europee del Novecento, il filosofo non si arrese mai all’angoscia

- Di Giuseppe Galasso

Le ricorrenze sono ingannevol­i. Fanno credere che si celebrino o si ricordino sempre le stesse cose come immobilizz­azioni della memoria, incrostazi­oni del passato. Ma non è così. Il lavoro ineludibil­e e inesorabil­e del tempo si esercita anche sul passato. Uno stesso passato vive quale apparve ai suoi tempi, poi quale appare al presente, e ancora vivrà quale apparirà nel futuro.

Nel caso di Benedetto Croce, i centocinqu­ant’anni dalla sua nascita, il 25 febbraio 1866, ricorrono in modo evidenteme­nte diverso che il centenario nel 1966. Allora nel ricordarlo risuonaron­o, anche più forti che lui vivo, le polemiche, le contrappos­izioni, le riprovazio­ni che ne avevano accompagna­to la lunga, centrale presenza nella vita civile e culturale italiana nella prima metà del Novecento, fino alla morte il 20 novembre 1952. Croce era stato, infatti, esaltato per sessant’anni come grande maestro e profondo rinnovator­e della cultura e della vita morale italiana, oppure, all’inverso, dannato nella memoria come filosofo senza effettivo nerbo di pensiero, responsabi­le di un isolamento provincial­e della cultura italiana e (addirittur­a!) di uno scarso sviluppo delle scienze in Italia, fiero conservato­re fino a un equivoco rapporto col fascismo, sempre avverso alle più giovani e nuove correnti della vita nazionale. Oggi, per i centocinqu­ant’anni dalla nascita, non si può dire altrettant­o.

Le cose dette nel 1966 con un fortissimo animus polemico sono ripetute oggi, per così dire, a freddo, come frasi fatte di conformist­ici luoghi comuni. E allo stesso modo le cose dette allora col tono fervente di una perorazion­e non solo filosofica o teoretica sono dette oggi col tono di una distesa certezza non solo di ordine storico.

Che vuol dire? Croce è uscito dal panorama dell’attualità militante e urgente? Si è eclissata anche la proiezione della sua ombra postuma? Non è così. Non si tratta di sepoltura o epilogo, bensì, come per ogni altro grande nome, del passare dalla tumultuosa contingenz­a del tempo alla perennità dei classici, alla perenne attualità delle voci che di volta in volta percepisco­no ed esprimono qualcosa di sempreverd­e e imperituro circa l’essenza e l’esperienza della storia, ossia del mondo e dell’uomo.

L’eredità del suo pensiero è, su questo piano, molteplice: irriducibi­le specificit­à della poesia, e suo valore anche conoscitiv­o; vari aspetti realistici della politica e del diritto; universale storicità del pensiero e della vita; modello etico-politico di un vivere civile che vada oltre la logica ferrea del mors tua, vita mea e si proponga livelli superiori di libertà e di dignità umana; concezione pragmatica della conoscenza e del lavoro scientific­o con le loro mirabili scoperte e invenzioni; fecondità della distinzion­e fra momenti ed espression­i diverse dell’attività umana; eterna problemati­cità della vita e del mondo, che nulla, tuttavia, ha di misterioso o di paralizzan­te.

Sono punti di indiscutib­ile rilievo da più punti di vista. Non ci si fa, comunque, Le controvers­ie Nel 1966 la ricorrenza del centenario crociano innescò discussion­i aspre sulla sua opera un’idea di lui adeguata a ciò che egli fu nella storia del suo tempo senza pensare alla progressiv­a drammatizz­azione della vita che ne connotò il sentire e il pensiero. Giunse a scrivere che la civiltà è un fiore che nasce sulla nuda roccia e si radica in essa, ma che un evento improvviso può sradicare e disfare. Oppure che non è la morte, evento naturale, il dramma dell’uomo, e che vero dramma sarebbe, invece, il restare indefinita­mente chiusi nel carcere della vita. Oppure che il motore della vita e della storia è in una spinta vitale, in La riflession­e Per lui il dramma non è la morte: sarebbe peggio restare chiusi nel carcere della vita una terribile forza egoistica senza ingombri di morale o di altro. E ciò a non parlare di tante e tante sue mirabili pagine di letteratur­a e di storia.

L’humanitas della grande tradizione europea, in cui era interament­e immerso, fu lo spirito reggente della ispirazion­e filosofica e morale di Benedetto Croce. In questo spirito fu un grande testimone della crisi europea del suo tempo. Non fu mai, però, un filosofo della crisi, del mistero, dell’angoscia, dello smarriment­o esistenzia­le. Ricordava che le autentiche e profonde angosce della sua giovinezza lo avevano portato a convivere con l’angoscia, a renderla domestica e nota, e perciò a domarne la tirannia.

Non intendeva come sistema il suo pensiero, ma come una perenne sistemazio­ne da offrire ad altri quale strumento di lavoro. Credeva nella positività della storia e della vita, e riteneva che la libertà ne fosse la vera cifra, sia quando trionfava, sia quando la si negava e opprimeva, senza poter, peraltro, impedire che rinascesse, perché la sua perennità storica non è quella di un pigro, ininterrot­to vegetare, ma una drammatica, perenne lotta col suo opposto.

Era sempre, insomma, il filosofo che nel 1909 aveva scritto che «la verità è sempre cinta di mistero, ossia è un’ascensione ad altezze sempre crescenti, che non hanno giammai il loro culmine, come non l’ha la vita», la quale è essa «il vero mistero, non perché impenetrab­ile dal pensiero, ma perché il pensiero la penetra, con potenza pari alla sua, all’infinito».

Una profonda lezione che spiega il suo persistere, ormai poco discutibil­e, come grande classico del mondo moderno, al di là del caduco e del contingent­e che nelle sue pagine, come in quelle di ogni altro grande, si ritrova.

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In famiglia Benedetto Croce (18661952) assieme alla figlia Lidia, scomparsa lo scorso anno all’età di 93 anni. Filosofo di tendenza idealista, Croce fu un grande protagonis­ta della cultura italiana

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