Quel fascino senza tempo conquistò Goethe e Salinger
Le lunghe code per entrare nelle gallerie non allontanano i possibili visitatori: una passione che può durare tutta la vita e che fa parte del «patrimonio genetico»
Se un qualsiasi viaggiatore, in un giorno di fine dicembre 2015, decide di trascorrere ben tre ore e quarantacinque minuti (regolarmente cronometrati) per entrare negli apartement e nella Galleria degli Specchi della Reggia di Versailles, un motivo ci dovrà pur essere: il museo fa parte della nostra cultura, nonostante gli eventuali tempi di attesa e nonostante gli altri possibili inconvenienti (biglietto troppo caro, orari non adeguati, didascalie non comprensibili, ecc ecc). Esattamente lo stesso motivo che spinge i visitatori a mettersi ancora oggi in coda sotto i portici degli Uffizi, sulle scalinate del Met, sui marciapiedi del Victoria & Albert, nel piazzale dell’Hermitage, davanti all’ingresso progettato da Moneo per il Prado, sotto la Peipiramide del Louvre.
Poco importa, insomma, che sia Parigi, Firenze, New York, Londra, San Pietroburgo, Madrid: quello che conta è che sia museo o, meglio ancora, un grande museo capace di attirare nuovi visitatori «solo» con il suo nome.
Un fascino, quello del museo, che è riuscito a superare felicemente i confini del tempo. Un fascino che è lo stesso raccontato da Johann Zoffany (1733-1810) nel suo quadrosimbolo: La Tribuna degli Uffizi si chiama, venne dipinto intorno al 1780, oggi fa parte della Royal Collection britannica e mostra un gruppo di connoisseurs e di Grand Tourist che affollano quella che all’epoca era la stanza «più importante» degli Uffizi (la Tribuna realizzata da Bernardo Buontalenti) con l’unica intenzione di ammirare Raffaello, Rubens, Guercino, i resti della romanità e dell’Antica Grecia. Proprio come accade ancora oggi.
Perché non c’è bisogno della Domenica al Museo istituita dal Ministro Dario Franceschini perché le famigerate «code» prendano forma. E nemmeno di una qualche mostraevento (tipo Monet o Antonello da Messina). In qualche la «coda» fa parte del gioco visto che al museo si va da sempre, almeno chi può permetterselo. E in qualche modo ci si va per tutta una vita; trovarlo affollato, oltretutto, ci restituisce la certezza di aver fatto la scelta giusta.
La «prima volta» si comincia, poco più che bambini, con la scuola: armati di colori; di grandi fogli e di una maestra che ci chiede chi ci fa venire in mente quel personaggio o cosa vediamo dietro quell’albero.
Per molti può essere la nascita di un amore, più o meno grande; per altri, solo una scoperta che rimarrà in qualche modo nel nostro patrimonio di ricordi felici. «Mi piaceva, quel maledetto museo. Mi ricordo che per andare all’auditorium bisognava passare per la Sala degli Indiani, Era una sala lunga lunga, e bisognava parlare bisbigliando — scrive ad esempio J.D.Salinger ne Il Giovane Holden (1951) a proposito di una sua visita al Museo di Storia Naturale di New York —. Il pavimento era tutto di pietra, e se tenevi in mano le palline e te le lasciavi scappare, rimbalzavano come matte per tutta la sala e facevano un rumore d’inferno, allora la maestra faceva fermare tutti e tornava indietro a vedere che diavolo succedeva».
L’«ultima volta» può essere in una «gita», sicuramente con spirito più maturo e consapevole, con l’Università della Terza Età o come volontario/ guida/ custode (anche se questo è una prerogativa tipica del mondo anglosassone). Nel mezzo c’è una frequentazione quasi obbligata, fatta anche in modo indiretto, grazie a cultmovie come Una notte al museo (2006) con Ben Stiller o La Sindrome di Stendhal (1996) di Dario Argento. E che contraddice le richieste «aristocratiche» di chi considera il museo come un fatto per pochi, per studiosi insomma.
Il fascino del capolavoro o di quelle icone senza tempo come La Primavera di Botticelli o la Gioconda di Leonardo conta, ma non è necessario: il museo non è mai una sola opera è uno scrigno pieno di sorprese, un luogo da scoprire con la vista e ora anche con smartphone e altro. «Il nostro obiettivo non è eliminare del tutto le code ma ridurle a quindici, venti minuti al massimo — è stata una delle prime dichiarazioni di Eike Schmidt, neodirettore-manager di Uffizi —e la prossima estate ci saranno ancora, anche se spero più brevi, ma conto di vederle scomparire nel 2017».
Nelle sue parole c’è la consapevolezza di quanto l’affollamento (code comprese) faccia parte del gioco. E del successo.
Nel suo Viaggio in Italia (1813-1817) Goethe così scriveva il 9 marzo 1787: «Oggi col principe von Waldeck andammo a Capodimonte, dove si trova la grande collezione di quadri, monete ecc.: mediocremente ordinata, ma ricca di cose di pregio». Certo ai suoi tempi non c’erano ancora gli attuali 10 milioni visitatori del Louvre, ma l’incantamento per quei tesori è lo stesso di
L’autore americano «Mi piaceva quel maledetto posto: una sala lunga lunga dove bisognava bisbigliare»
oggi. Il museo, secondo la definizione elaborata nello ambito dell’International Council of Museum (l’associazione internazionale che riunisce musei di tutto il mondo), è «un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. È aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e, soprattutto, le espone a fini di studio, educazione e diletto».
Non è forse molto dilettoso stare in coda tre ore e quarantacinque minuti, magari persino al freddo, ma se poi si pensa a questi buoni propositi ogni attesa, per quanto lunga vale. Sempre e comunque.
La missione «Acquisisce e conserva i tesori ma, soprattutto, li espone per studio, educazione e diletto»