Quella croce contro le prove muscolari
DLa fede Il gestoclou della «Vittoria di Costantino su Massenzio»
al 1503, da quando Leonardo e Michelangelo dipinsero le battaglie di Cascina e di Anghiari, in Palazzo Vecchio a Firenze, il tema della battaglia divenne una palestra per tutta la pittura europea, come grande occasione per spronare l’immaginazione e mettere in mostra uomini e cavalli in lotta. La battaglia tra Costantino e Massenzio fu un ottimo pretesto per simili esibizioni. Non era stato così per Piero della Francesca quando, circa nel 1455, si era trovato a dipingere la vittoria di Costantino. Se mai aveva visto (ma è improbabile) i furiosi combattimenti tra catafratti che Paolo Uccello aveva dipinto nel 1432, scelse tutt’altra strada. Non dipinse una battaglia, ma un miracolo. L’esercito romano avanza in parata dietro a Costantino che tiene tra due dita la croce. Non vi è scontro, né combattimento. È la piccola croce d’oro nella mano di Costantino che mette in fuga i nemici. Tra i due eserciti si offre la vista di un’ansa del Tevere, uno dei paesaggi più sereni in tutta la storia della pittura. Piero avrebbe deluso chi cercava nella pittura tutt’altre dimostrazioni. Solo dal 1850 fu possibile incominciare il lungo cammino che avrebbe portato a guardare l’opera di Piero accostandosi al suo mondo. Le scoperte della scultura assira di Ninive, della scultura egizia e di quella arcaica greca sospingevano a vedere Piero in una continuità di millenni di religiosità nell’arte. Roberto Longhi, cui dobbiamo la sapiente e seducente messa in circolazione di due incompresi, Piero e Caravaggio, non mancò di ravvisare quest’onda lunga. Puvis de Chavannes, Seurat, Cézanne ci avevano aperto gli occhi. Longhi non mancò di ricordarci che calchi degli affreschi di Arezzo si trovavano proprio nell’accademia di Parigi, dove i futuri maestri poterono studiarli e si spinse a paragonare la testa della Madonna nel Polittico della Misericordia ad una scultura egizia.