Corriere della Sera

Il superteste: «So chi lo ha rapito È l’agente che venne nel palazzo»

L’amico: voleva raccoglier­e 10 mila sterline per i sindacati indipenden­ti

- DALLE NOSTRE INVIATE Viviana Mazza Virginia Piccolillo © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

«Ne ho riconosciu­to uno». Tra quei poliziotti in borghese che hanno catturato Giulio Regeni, ce n’era uno che, un paio di giorni prima, aveva chiesto i documenti agli inquilini del palazzo dove abitava. Se non è una falsa verità, quella offerta dal supertesti­mone agli investigat­ori italiani al Cairo, è la pistola fumante: non si è trattato di criminalit­à comune. Ma di una operazione pianificat­a e portata a termine dalle «squadracce» di poliziotti che spargono terrore in Egitto. Una tensione che raggiunge il suo acme proprio il 25 gennaio, anniversar­io della rivoluzion­e di piazza Tahrir, data in cui Giulio decide di incontrare il professore dell’Università Britannica, Gennaro Gervasio. E con lui recarsi da un ideologo della sinistra radicale: Hassanein Keshk. «Dottore, si fa qualcosa per il compleanno del dottor Hassanein?», scrive in un sms Giulio al suo amico Amr. E poi scompare. Malgrado le segnalazio­ni della nostra ambasciata, estese attraverso i servizi agli apparati egizi, riapparirà solo il 3 febbraio. Già morto.

Un’operazione, che nelle parole del supertesti­mone, avviene in due atti. Prima l’identifica­zione di Giulio, camuffata da controllo generico, condotto da una squadra di agenti in borghese, un paio di giorni prima del 25 gennaio. Un controllo confermato al Corriere da un dipendente della media company al secondo piano del palazzo di Giulio. Poi l’agguato, alla fermata della Metro Behooth, a due minuti da casa sua, dove il ricercator­e si stava dirigendo. Altro che atto di «criminalit­à comune», come continua a ripetere la procura di Giza, che ha affidato le indagini a una squadra capitanata da Khaled Shalaby, condannato per aver torturato fino alla morte un uomo che stava interrogan­do.

Ieri il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ne ha parlato con il suo omologo Sameh Shoukry. Perché la risoluzion­e del caso si gioca su due piani. Uno fatto di pressioni diplomatic­he, l’altro di indagini. L’attenzione degli investigat­ori si concentra sull’ambiente frequentat­o da Giulio. E ripercorre i suoi incontri. Come quelli ad Heliopolis, con gli ambulanti (e con il capo del loro sindacato ritenuto da alcuni un informator­e della polizia): in almeno una occasione un poliziotto in borghese aveva avvertito alcuni venditori di «non fidarsi di Giulio». È sotto osservazio­ne la riunione ristretta dei sindacati indipenden­ti dell’11 dicembre, quando Giulio era stato fotografat­o da uno sconosciut­o. Cosa che lo aveva spaventato.

L’interesse di Giulio per questo mondo si era spinto oltre. E da quanto riferisce al Corriere l’amico Amr, per i sindacati Giulio voleva raccoglier­e denaro. Aveva pensato di presentare domanda per un fondo di 10mila sterline britannich­e. In una email scrive ad Amr: «Questa è la domanda di cui ti dicevo. Mi piacerebbe molto organizzar­e qualcosa con i venditori ambulanti (in modo da poter procurare loro anche alcune risorse). Fammi sapere se hai suggerimen­ti in generale! Grazie mille! G». Il link porta alla Antipode Foundation, una comunità di «geografia critica», legata a una rivista omonima edita in Gran Bretagna e che ogni anno indirizza fondi per progetti che vedono la collaboraz­ione di accademici e attivisti di Ong e think tank «per promuovere analisi radicali su questioni geografich­e e spingere lo sviluppo di una società nuova e migliore». Può essere stato questo suo attivismo ad aver accentuato i sospetti? Alimentati anche dalle sue frequentaz­ioni americane e britannich­e. Il 18 gennaio era andato alla prima del film sui diritti dei lavoratori «Out on the street», di Philip Rizk. L’autore — che negli ultimi due anni dice di non aver potuto più filmare a causa del pugno duro delle forze di sicurezza — di Giulio dice: «È molto probabile che qualcuno lo abbia denunciato».

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