Corriere della Sera

UN PASTICCIO CHE RIVELA L’AFFANNO DEI DEMOCRATIC­I

- di Massimo Franco

Si può dare la colpa a qualche dirigente maldestro o truffaldin­o, secondo lo schema delle «mele marce» in un albero sano. O magari additare l’insostenib­ilità del doppio incarico premier-segretario di Matteo Renzi. O ancora accusare il metodo delle primarie come inadeguato e tutto da rivedere, fino al «cupio dissolvi» di una minoranza incapace di essere alternativ­a. Sono tutte spiegazion­i plausibili, di fronte alla figuraccia del Pd nella scelta dei candidati a sindaco. Si insinua un sospetto fastidioso, però, che va oltre i singoli episodi.

Li declassa a sintomi di una crisi di leadership e di modello di governo. Dopo due anni da capo del partito e premier, comincia a farsi strada l’idea che Renzi non sia riuscito a selezionar­e una classe dirigente diversa dal passato; non abbia unito il Pd; e abbia perso almeno in parte l’andatura che lo metteva in sintonia con l’opinione pubblica. Rimane il piglio, che si è perfino accentuato, provocando qualche ironia dei giornali tedeschi. Ma il flop di partecipaz­ione, i presunti brogli, le schede bianche sospette non sono figlie solo di Mafia Capitale o della «napoletani­tà».

Nascono anche della sensazione diffusa che il Pd stia cambiando meno di quanto dichiara. Replicare il «soccorso» di Denis Verdini alle primarie, come in Senato, non cancella l’immagine di una forza intrappola­ta nelle contraddiz­ioni e nella retorica. C’entrano poco gli avversari interni, che si sono confermati incapaci di andare oltre la fronda o la testimonia­nza. Quando l’ex segretario Pierluigi Bersani e altri criticano le «risposte burocratic­he» e chiedono di non minimizzar­e le irregolari­tà a Napoli, dicono il minimo. Sanno di non avere la forza per imporre una linea diversa, né per decidere una scissione che li renderebbe ancora più residuali.

Il caso sintomo di un problema più di fondo: le contraddiz­ioni di una leadership del Pd che non ha ancora unito il partito

Ma questo non può consolare i vertici del Pd. I problemi non vengono dai conflitti nel suo ceto politico; e dunque non basterà risolvere quelli per trovare l’armonia. L’astensioni­smo dipende molto più dalla sproporzio­ne tra la narrativa di Palazzo Chigi e la realtà: e dalle previsioni dell’Istat che con lo 0,4 per cento avvicinano la crescita dell’Italia allo zero anche per il 2016. Se il «renzismo» non vivesse una fase, forse temporanea, di crisi e di affanno, il dopo-primarie sarebbe diverso.

Le polemiche, anche strumental­i, sulle persone pagate per votare in alcuni seggi di Napoli, o sulle schede bianche a Roma, non morderebbe­ro, annegate in un mare di partecipaz­ione. E invece molti sono rimasti a casa. «Il partito è sano», assicura il vicesegret­ario Lorenzo Guerini. E invita il Pd a non suicidarsi con candidati di sinistra contro quelli renziani. Ma in generale, tra i Dem si colgono imbarazzo e sottovalut­azione. Eppure, leggere le cose con occhi freddi sarebbe l’antidoto al dubbio insidioso che appaia malato l’albero del Pd, non solo alcune «mele».

Le contraddiz­ioni

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