Corriere della Sera

Eccessi kolossal di Martone nella Francia rivoluzion­aria

- di Franco Cordelli

Come reagivamo da ragazzi (ai tempi di Carmelo Bene) di fronte a spettacoli del genere La morte di Danton, messo in scena da Mario Martone per lo Stabile di Torino e ora allo Strehler di Milano? Reagivamo con illimitata insofferen­za. E come reagiamo oggi? Con rassegnazi­one. Il tempo e le abitudini ci lavorano ai fianchi. Ma il costo dello spettacolo, che si presume considerev­ole, maldispone oltre le abitudini e proprio perché l’opulenza contribuis­ce a sopportare — sopportare nel più elementare dei modi: con i cambi di scena incessanti, con i costumi, con la quantità degli attori. Personalme­nte, non mi voglio arrendere. Di fronte a Georg Büchner, alla sua grandezza, è proibito.

Morte di Danton, lo sappiamo, è difficilis­simo. Non a caso non lo si fa mai. Ne ho viste due sole edizioni: una di Klaus Michael Grüber, rastremata fino a un assottigli­amento tale del testo da renderlo pari a un profilo inciso sul marmo; l’altra, di Simone Carella, in cui il testo era evaporato nelle pure voci, voci che s’incrociava­no e s’accavallav­ano, in uno sventolio di bandiere rosse e tricolori di Francia. Di questo spettacolo Martone potrebbe avere memoria. Andò in scena al Beat 72, un teatrino romano d’avanguardi­a che lui, ragazzo, frequentav­a, e dal quale prese le mosse. Nel suo siamo all’opposto, siamo nei luoghi che egli con ogni probabilit­à detestava: il lusso, la magniloque­nza, lo stordiment­o. Si potrebbe descrivere così. Büchner racconta nel suo testo un momento della Rivoluzion­e, il più drammatico: lo scontro tra Danton e Robespierr­e.

Danton non è né un volgare edonista né un ovvio moderato. Semmai è un nichilista (e poi uno stoico). Ma meglio ancora, con il senno di poi, un esistenzia­lista, un uomo che ha l’alta virtù di vedere (di sentire) la natura umana. Robespierr­e è, naturalmen­te, il Terrore. Ma entrambi, e tutti gli altri personaggi, parlano lo stesso linguaggio sentenzios­o: epigrammat­icità che viene dal Seicento dei moralisti francesi e metaforici­tà non inferiore a quella dei romantici tedeschi, coevi di Büchner.

Nella messinscen­a di tutto ciò, con cinque sipari rossi in sequenza, con illustrazi­oni nello stile da blockbuste­r di Noi credevamo, con entrata in scena dei protagonis­ti, e delle comparse, sempre (altamente) risonante, con l’affacciars­i di tanto in tanto di cadenze napoletane e gratuita scena di sesso e nudo — in tale messinscen­a, di Büchner cosa resta?

Anche prendendo lo spettacolo a spicchi, poesia e non poesia (stile Benedetto Croce, visto che Napoli suona, siamo, un poco, nel suo regno), non c’è nulla di buono. Neppure negli attori. I meno credibili sono i due protagonis­ti. Giuseppe Battiston ha la dolcezza, eventuale, di Danton, mai la durezza. Paolo Pierobon dico solo che si presenta vestito di nero, con tanto di tricorno, a capo chino – un po’ da prete.

Meglio di loro, nella sua prima apparizion­e, il Saint-Just di Fausto Cabra. Si salvano, nella massa, Paolo Graziosi, Roberto De Francesco e Alfonso Santagata. Nessun personaggi­o femminile, neppure Iaia Forte, è persuasivo.

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In scena Al centro, Giuseppe Battiston (Danton), 47 anni, in un momento dello spettacolo

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