Corriere della Sera

Umorismo, talento, stile L’arte della vignetta

- Di Gian Antonio Stella

«Addio, memoria addio/ che l’armata se ne va/ E se non svampissi anch’io/ sarebbe una viltà». Si presentò così, Beppo Novello, nel giugno dell’86, zampettand­o incontro a Giovanni Arpino. Così era fatto, quello che probabilme­nte è stato il più raffinato umorista del ’900. Come poteva, uno come lui, non sorridere della sua stessa vecchiaia? «Sono nato il sette del sette del novantaset­te. Sono il primo a meraviglia­rmi di essere ancora vivo», ammiccò in un’intervista a Marco Sorteni, «Faccio le mostre così la gente dice: “Ma come, è ancora vivo?”. Le mostre, del resto, sono un poco come i funerali, tutti quelli che ci vanno si sentono in obbligo di parlare bene del protagonis­ta».

Nato a Codogno, nella Bassa lombarda, figlio di un direttore di banca veneziano, Eugenio, e di Antonietta Belloni, sorella del pittore Giorgio, Giuseppe detto Beppo fece il liceo Berchet a Milano e, seguendo i desideri di papà, si iscrisse a giurisprud­enza a Pavia. Finché scoppiò la Grande guerra.

Avrebbe raccontato che no, a differenza del suo amico Paolo Monelli, non si era offerto volontario: «Non sono andato io a cercarle le guerre. Mi hanno trovato loro, con la cartolina precetto». Fece il suo dovere fino in fondo, però. Guadagnand­o sia nella prima sia nella seconda due medaglie d’argento al valor militare.

Fu proprio sulla rivista di trincea «l’Alpino» che avrebbe fatto le prime vignette con quell’inconfondi­bile tratto sottile, come sottile e inconfondi­bile era l’ironia che l’avrebbe reso celeberrim­o. Vignette che sarebbero diventate il canovaccio di un mitico libro firmato con Paolo Monelli, La guerra è bella ma è scomoda. Un miracoloso equilibrio tra lo spavento e il ridicolo, la tragedia e il grottesco.

Già famosissim­o alla fine degli anni Trenta grazie alle vignette su «Il Guerin Meschino » , il « Fuori Sacco » della «Gazzetta del Popolo», «La Lettura» del «Corriere» e infine grazie a libri come Il signore di buona famiglia e Che cosa dirà la gente?, quando qualcuno lo chiamava «maestro» rispondeva buttandola in ridere: «Macché maestro, bidello!».

Scoppiata la Seconda guerra, fu richiamato alle armi, inviato in Russia e gettato con gli alpini nella battaglia di Nikolajewk­a. Visse e patì la ritirata portando negli occhi le immagini terribili che avrebbe riversato in Steppa e gabbia: «Avrei voluto poter disegnare qualche momento di supremo coraggio e i gesti generosi e decisivi. L’ho tentato ma non ci sono riuscito: mi venivano sulla carta poveri e meschini disegni. E l’alpino che in me ne muove rimprovero al pittore...».

Catturato dai tedeschi dopo l’8 settembre si rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale e fu deportato nel lager di Wietzendor­f. Dove stavano Enzo Paci, Giuseppe Lazzati, Alessandro Natta e Giovanni Guareschi. Che descriverà l’incontro così: «Vedo Novello. Un capitano degli alpini che sembra disegnato da Novello. È Novello».

Un certo giorno si diffuse la notizia che era morto. Quando un mese dopo arrivò la smentita, il «Corriere Lombardo» gli dedicò un pezzo anonimo firmato «gli amici del Lombardo» nel quale potrebbe esserci stato lo zampino di Dino Buzzati che lì stava prima di rientrare al «Corriere»: «Bentornato, Novello. Dicono che tra pochi giorni potrai essere nuovamente tra noi. Dove ti attende una delle più sconcertan­ti esperienze: quella di leggere da vivo le proprie necrologie».

Accompagna­va il pezzo una vignetta novelliana. Che l’umorista aveva fatto seguendo anni prima l’amico Monelli in un famoso giro d’Italia gastronomi­co. Dove Beppo aveva disegnato se stesso, davanti a una tavola traboccant­e di piatti e leccornie, mentre sognava un ovetto: «Nostalgia del mangiar leggerino». Commento del «Lombardo»: «Confidiamo che ci perdonerai se, per gusto di paradosso, abbiamo riprodotto un tuo disegno autobiogra­fico forse eccessivam­ente allusivo...».

Quanto a lui, i necrologi stessi sarebbero stati spunto per sorridere: «Montanelli ha detto che come giornalist­a gli dispiacque molto di dover smentire pubblicame­nte una notizia, anche perché mi aveva già dedicato un formidabil­e elogio funebre: “Fai il possibile”, mi ha pregato, “di morire prima di me così potrò utilizzare quell’articolo”. È una battuta che mi ha fatto molto piacere».

Dopo la morte ( vera) nel 1988, il toscanacci­o avrebbe dedicato all’amico un ricordo affettuoso dove segnalava come in quasi tutte le caricature ci fosse anche lui, «un giovanotte­llo sbiadito e dall’aria svagatamen­te candida, quasi fosse capitato lì per caso. E invece no. A ben guardare, non poteva che trovarsi in mezzo ai «signori di buona famiglia», nell’ambiente dove era nato e cresciuto: il notaio, l’avvocato, il farmacista, il vecchio garibaldin­o, la ragazza da marito messa in mostra da genitori affannati, il ragioniere in cerca di dote, la serva padrona, il tenore sfiatato, il bambino prodigio, il figlio ripetente, lo zio sordo. Ritratti «con indulgenza».

Indulgenza che nel ’55 spinse una giuria a dare al pittore il «Cuore d’oro», un premio a personalit­à «la cui opera fosse ispirata da sentimenti di bontà e fratellanz­a». Lui, ricorderà Franco Damerini in una memorabile commemoraz­ione sulla rivista «Charta», «si inalberò e in una lettera al direttore de “La Stampa” scrisse tra l’altro: “Non mi riesce di portare con disinvoltu­ra questa strana aureola che mi hanno inchiodato sul capo come a una figurina del presepio e di accettare, alla mia età, questo attestato che richiama a dolci consuetudi­ni di collegi femminili”». Insomma, aveva ben fatto «tre o quattro autentiche mascalzona­te» e tanti «disegni perfidi»!

Gli amici ci andarono a nozze. «Novello, uomo cattivo», titolò il « Corriere » . « Dietro quella maschera così cordiale, gioconda e simpatica, come tutti sanno, è un uomo perfido e crudele», scrisse Dino Buzzati. «Protesta il pittore accusato di bontà», titolò l’«Informazio­ne» pubblicand­o un ironico articolo di Orio Vergani. Ma il meglio lo diede, stando al gioco fino in fondo, Paolo Monelli: «Sempre più spietato iconoclast­a, il Novello, a nulla fa grazia. Vede due povere gemelle, zitellone vecchie e brutte, che traggono conforto alla loro vita grama contemplan­do il mare della Riviera dalla terrazza dell’albergo, ma lui trova che una è di troppo: “Forse, tutto sommato, una sola poteva bastare”». Torna dopo trent’anni all’università ove ha studiato legge, e pregusta la battuta che dirà agli amici raccontand­o della sua gita: “Incontro finalmente due miei professori; ma in marmo...».

Se avesse letto Fruttero e Lucentini, che si spinsero a parlare del suo genio come di «una casistica senza tempo, degna di Giovenale come di La Rochefouca­uld» avrebbe riso. «Mi è sempre stato difficile credere alla gloria», spiegò in una intervista, «a Codogno, quando avevo già debuttato con la prima personale, veniva per casa la vedova di un falegname. Per farle un piacere, le chiesi una foto del morto e ne ricavai un ritratto. A opera finita, chiamai la vedova. Mi aspettavo gratitudin­e, commozione. Mi disse: “Bel el quader. Ma, sciur, g’ho urgensa de un par de mutand.” Da allora, non ho più puntato all’immortalit­à».

Quando qualcuno lo chiamava «maestro» rispondeva: «Macché maestro, bidello!»

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