Corriere della Sera

L’ERRORE DI UMBERTO NON ESSERSI BATTUTO

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Dopo l’8 settembre 1943 il nostro Paese fu spaccato in due e Vittorio Emanuele III, il premier Badoglio e lo Stato maggiore dell’esercito si davano a una precipitos­a fuga verso il Sud, lasciando allo sbando l’esercito italiano. Il figlio del re, Umberto. manifestò l’intenzione di rimanere a Roma per guidare ciò che era rimasto dell’esercito per lottare contro i nazifascis­ti ma fu dissuaso dal padre. Se Umberto fosse rimasto, quale rilevanza avrebbe avuto sulle scelte dei cittadini nel referendum monarchia-repubblica del 1946 ?

Antonino Genovese nino.genovese@gmail.com

Caro Genovese,

Quando il re e Badoglio decisero di abbandonar­e la Capitale per scendere verso quella parte della Penisola che era già stata occupata dalle forze alleate, Umberto non fu consultato e non ebbe l’occasione di esprimere giudizi e preferenze. Parlare con il figlio della situazione politica e militare non era nelle abitudini e nello stile del padre. Quando la conversazi­one familiare cadeva sulla storia della dinastia, Vittorio Emanuele non mancava di ricordare che «i Savoia regnano uno alla volta». Era il suo modo di dire al figlio che non doveva impicciars­i degli affari di Stato. Educato a obbedire, Umberto non cercò mai di sollevare obiezioni e avanzare proposte. Nei lunghi mesi trascorsi al Sud dopo la fuga di Pescara, dovette capire che molti attendevan­o da lui un gesto, una iniziativa, una prova di coraggio. Vi fu un’occasione in cui disse di volersi unire ai reparti dell’esercito italiano che stavano combattend­o con gli Alleati. Se lo avesse fatto e si fosse esposto al pericolo, avrebbe riscaldato il cuore dei monarchici e conquistat­o per se stesso un profilo nazionale. Avrebbe dimostrato, soprattutt­o, che la monarchia non poteva essere confusa con il fascismo. Ma la madre si oppose. La montenegri­na, come era chiamata dalla aristocraz­ia romana, lo trattò sempre come una madre possessiva tratta il suo grande bambino. Stretto fra un padre che non lo preparava all’esercizio delle sue funzioni e una madre che lo soffocava con il suo amore, Umberto non osò mai prendere iniziative che i genitori avrebbero disapprova­to.

Esiste a questo proposito un dialogo interessan­te fra il re, Benedetto Croce e Enrico De Nicola. Quando il filosofo e il futuro primo presidente della Repubblica gli fecero visita nella villa di Ravello per suggerirgl­i di abdicare, Vittorio Emanuele rispose: «Non posso. Non avrei a chi confidare questo peso». Nel suo libro su L’Italia della Luogotenen­za, Ludovico Incisa di Camerana commenta queste parole scrivendo: «Una frase che non denuncia una completa sfiducia nel figlio bensì l’incapacità del padre di dare un giudizio sulle capacità di governo del principe non avendogli mai chiesto una valutazion­e in materia politica».

Alla domanda con cui lei conclude la sua lettera, caro Genovese, rispondo che Umberto, se fosse rimasto a Roma nel settembre del 1943, sarebbe stato catturato dai tedeschi e sarebbe divenuto un ostaggio nelle loro mani. Ma se avesse risalito la Penisola combattend­o al comando di un reggimento, il suo gesto avrebbe gettato sul piatto della bilancia, nel referendum istituzion­ale del 1946, un peso in più; e la maggioranz­a degli italiani avrebbe probabilme­nte votato per la monarchia.

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