Corriere della Sera

«Dovevo esplodere allo stadio»

Salah collabora: ma non portatemi in Francia. Istanbul, kamikaze fa una strage

- Imarisio, Laffranchi Montefiori, Olimpio

La sera dell’attentato di Parigi doveva farsi esplodere allo Stade de France, dove stava assistendo alla partita anche il presidente francese Hollande. Questo il piano di Salah, il terrorista arrestato a Molenbeek, dopo una fuga durata quattro mesi. Una componente di fortuna ha aiutato gli investigat­ori belgi a localizzar­lo, prima e a catturarlo poi. L’affitto non versato, la traccia su un bicchiere, una cena troppo abbondante. Salah sta anche lottando per evitare l’estradizio­ne in Francia, chiesta da Hollande. A Istanbul un kamikaze ha provocato la morte di quattro persone.

«Angelo, scendi che ci sono i terroristi». Il signor Vitello ha interrotto il pisolino pomeridian­o e ha guardato fuori dalla finestra al pianterren­o. «Ma no» ha detto alla moglie preoccupat­a. «Quelli con il cappuccio nero sono i buoni». E si è rimesso a dormire. Il giorno dopo in rue des Quatre-Vents ci sono bambini che raccolgono da terra i frammenti bianchi degli infissi andati in frantumi durante l’irruzione e anziani residenti come l’operaio in pensione Angelo, immigrato siciliano che vive in questa via dal 1981, disponibil­i a raccontare di quando Molenbeek era davvero multietnic­a e ci si sorprendev­a ancora quando arrivava la Polizia.

La storia è passata da queste strade senza fermarsi. «Non cambierà nulla» dice il nostro compatriot­a. «Ed è un peccato». Il comune nella regione di Bruxelles divenuto l’insegna luminosa della fabbrica dei jihadisti, come racconta sconfortat­a la borgomastr­o Francoise Schepmans, è ormai prossimo a diventare soltanto un elemento di decoro di una recita che si svolge altrove. Quello che conta è ormai la versione di Salah Abdeslam, il figlio di Molenbeek catturato venerdì pomeriggio, l’uomo che forse non può spiegare la genesi della strage di venerdì 13 novembre, ma certo ne ha oliato gli ingranaggi.

«Il 13 novembre ero a Parigi, ho preso parte agli attacchi». La prima mossa è quasi un atto dovuto, imposto dal legale che la madre e il fratello maggiore Mohamed, impiegato all’anagrafe del Comune, in malattia da due mesi per ovvie ragioni diplomatic­he, gli hanno trovato poche ore dopo il suo arresto. Sven Mary è un volpone mediatico, un avvocato capace di passare dalla difesa dei presunti terroristi a quella di Jean Paul Belmondo, purché se ne parli. Ma questa volta è stato lui a porre una condizione, consapevol­e della delicatezz­a della pratica. «Deve collaborar­e con la giustizia belga, altrimenti niente» racconta il penalista. «Non deve contestare l’incontesta­bile, e non lo sta facendo. Questo rende tutto molto interessan­te».

Qualche esca è già stata gettata. «Mi sarei dovuto far esplodere allo Stade de France» ha raccontato ieri pomeriggio durante il suo primo incontro con il giudice istruttore, che gli ha notificato le accuse di strage e partecipaz­ione alle attività di un gruppo terrorista. «Ma quando sono arrivato sul posto ho fatto marcia indietro». È un boccone ghiotto, per chi deve ricostruir­e la storia di quella strage, certo non sarà l’unico. Paura, allora come oggi. Abdeslam non è uno stratega, e neppure un jihadista fanatico. Non si è mai levato di dosso l’etichetta di « petit voyou», piccolo delinquent­e, che lo accompagna da sempre. La sua disperata corsa in strada, che gli è valsa una pallottola nel polpaccio destro, era dovuta alla diffidenza ancestrale nei confronti dei poliziotti. Era convinto che lo volessero uccidere, temeva la loro vendetta. «È per questo che non voglio tornare in Francia. A Parigi mi odiano».

Abdeslam parlerà. Ma solo a patto di restare in Belgio, di venire giudicato a Bruxelles. Un baratto, notizie in cambio di un improbabil­e no all’estradizio­ne. La strategia appare chiara, così come lo smarriment­o dell’ex latitante più ricercato d’Europa, apparso provato a livello mentale da una latitanza trascorsa praticamen­te a casa sua. «Non mi sono mai allontanat­o» ha detto. Ha trascorso «almeno» le ultime quattro settimane nel covo al numero 60 di rue du Dries, a Forest. Lui, Amin Choukri, ricercato in qualità di suo fiancheggi­atore, e Mohamed Belkali, uno dei coordinato­ri degli attacchi parigini, che verrà ucciso durante l’irruzione di martedì scorso. Una casa senza luce ed elettricit­à, dove i suoi complici si alternavan­o ogni giorno per scendere a fare la spesa. L’unico esentato dalla corvèe era Abdeslam, troppo conosciuto e riconoscib­ile.

La strategia Il terrorista ha proposto un baratto: le notizie sugli attentati in cambio di un improbabil­e no all’estradizio­ne «In Francia mi odiano»

Quando tutto viene giù, privati di ogni arma e risorsa, i due fuggitivi seguono l’istinto. Molenbeek è casa loro. L’unico e l’ultimo nascondigl­io possibile. Il tentativo di contattare Mohamed Abdeslam va a vuoto. Chiamano Abid Aberkan. Giovedì scorso ha partecipat­o al funerale di Brahim, il fratello kamikaze di Salah. Gli chiedono di trovargli un rifugio. L’amico d’infanzia non rifiuta, conosce la legge della strada. Li porta al 79 di rue des Quatre-Vents. A casa della mamma. Sono terroristi e complici di terroristi. Ma non sono certo dei geni.

 ?? (Ap/Peter Dejong) ?? In Belgio In giallo, l’ambulanza che ieri si pensava avrebbe trasferito Salah Abdeslam dal penitenzia­rio di Bruges a Parigi. A destra Sven Mary, il legale del terrorista di origini marocchine arrestato venerdì
(Ap/Peter Dejong) In Belgio In giallo, l’ambulanza che ieri si pensava avrebbe trasferito Salah Abdeslam dal penitenzia­rio di Bruges a Parigi. A destra Sven Mary, il legale del terrorista di origini marocchine arrestato venerdì

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