Corriere della Sera

I padri vecchi e fragili che ci insegnano la solidariet­à

- Di Beppe Severgnini

Èla mia prima festa del papà senza papà. Mi è successo a cinquantan­ove anni, e mi considero fortunato. Mio padre Angelo, classe 1917, se n’è andato domenica scorsa. Ho trovato sul suo tavolo rotondo davanti al televisore alcune pagine del Corriere, con i miei articoli annotati e — come sempre — il voto. Ultimament­e era diventato magnanimo, ma negli anni ho preso le mie insufficie­nze. Sono giornate formidabil­i, quando se ne va un genitore. Terribili, ma formidabil­i. La vita ti spiega come funziona: tu devi solo abbassare la testa e ascoltare.

Un vecchissim­o papà ha lasciato a me, ai miei fratelli e ai nostri figli una lezione che lui amava riassumere in una parola: solidariet­à! Col punto esclamativ­o, ovviamente.

La parola gli piaceva molto. L’abbiamo trovata incollata sulla scrivania notarile, la stessa, occupata dal 1943: settantatr­é anni. Solidariet­à! Vogliatevi bene, aiutatevi a vicenda, distribuit­e le cose secondo necessità, ascoltando il cuore e non il codice. Il testamento è solo una guida. Papà ripeteva a chiunque volesse ascoltare (anche a tutti gli altri, a dire il vero): «Chi aspetta di fare il testamento perfetto non farà testamento!». E lascerà dietro di sé incertezza e confusione. Il notaio Severgnini aveva una concezione paternalis­tica del mestiere: ecco perché è bello scriverne nel giorno in cui i papà vengono festeggiat­i. Sosteneva che i redditi di un notaio sono giustifica­ti solo se riescono a evitare incomprens­ione

nelle famiglie, se le portano a prendere le decisione giuste, se le liberano dall’ansia. Altrimenti, la figura del notaio diventa inutile: e non durerà.

Diversi agricoltor­i cremaschi — siamo una famiglia di terra e di pianura — mi hanno raccontato, in questi giorni, cosa succedeva quando andavano da papà per fare testamento (ne aveva in deposito oltre quattromil­a, distribuit­i due anni fa tra i colleghi del distretto). Il notaio Severgnini chiedeva che venissero con la moglie, li faceva sedere e poi diceva, in dialetto: «Raccontate­mi della vostra famiglia, non abbiamo fretta. Perché, se non vi conosco, come posso consigliar­vi?». Le succession­i curate da lui, guarda caso, filavano lisce. «In tribunale per questioni di eredità? Cinque clienti in tutta la carriera!», raccontava orgoglioso.

Non va così, purtroppo, in

Italia. Molte famiglie — sempre di più — sono squassate da litigi e incomprens­ioni per questioni ereditarie: ognuno di noi ne conosce, e si dispiace. Certo: ogni caso è diverso, le circostanz­e cambiano, le spiegazion­i abbondano. «Le mogli dei figli maschi sono fondamenta­li » , sosteneva papà. «Dalle cognate dipende l’armonia delle famiglie». E quando lo accusavo di generalizz­are, si scocciava. «Non è un mia opinione, è una mia statistica», sbottava.

C’è qualcosa di inquietant­e nel modo in cui tanti italiani scelgono di convivere con l’amarezza. Gente con molti soldi, gente con meno soldi, gente senza soldi: l’incomprens­ione non è una questione finanziari­a, e aumenta. L’ostilità, la rigidità e l’aggressivi­tà sono diventate il marchio di molte famiglie. Ognuno convinto d’aver ragione, nessuno disposto a fare il primo passo: «Basta, che senso ha? I nostri genitori ci hanno lasciato immobili e risparmi perché vivessimo meglio, non perché ci scannassim­o tra noi».

Chissà, forse manca un padre, o qualcuno che possa sostituirl­o. Qualcuno che si assuma il compito di impedire i conflitti o di risolverli. I libri e i film sull’assenza del padre si moltiplica­no: da Knausgård a Moehringer, da Scurati a Siti, da Virzì a Verdone. Ma quasi sempre parlano di padri distratti, padri in fuga, padri in libera uscita, padri giovani o che s’illudono d’esserlo ancora. Ma ci sono anche gli altri. I padri vecchi e fragili che non lasciano per distrazion­e, ma per età. E, quando se ne vanno, lasciano un vuoto.

C’è un pater familias che va oltre la biologia e il diritto privato. La paternità è un programma, «forse il primo programma», spiega lo psicoanali­sta Luigi Zoja ne Il gesto di Ettore. La paternità si sceglie, e non ha età. C’è sempre un modo di rendersi utili. Nelle cascine lombarde c’era una sedia più bassa, vicino al fuoco, per il più anziano della famiglia: era un modo per dirgli che contava ancora, e qualcuno sarebbe venuto dopo di lui, e si sarebbe seduto lì.

La seggiolina — l’ho provata — non è comoda. Forse per quello, oggi, molti rifiutano d’occuparla. Ma poi è un guaio: le famiglie si girano in cerca di uno sguardo o di un consiglio, e non vedono nessuno. Mio padre Angelo, invece, quella sedia l’ha occupata con passione fino alla fine. Quando qualcuno passava di lì, ripeteva: solidariet­à!

Ora che ci penso: chissà che voto prenderebb­e quest’articolo. Non lo saprò mai.

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