Corriere della Sera

Così fu svelata la trama del «Pendolo» Ma Eco sapeva accettare le beffe

Luglio 1988: sul «Corriere del Ticino» lo scoop che scatenò un putiferio Quanti sospetti di complotto sul romanzo dedicato al Grande Complotto

- di Paolo Di Stefano

Il 30 luglio 1988 ho fatto uno scherzo a Umberto Eco. Da settimane, anzi da qualche mese, non c’era giornale al mondo, dopo il successo planetario del Nome della rosa, che non insinuasse laconiche ipotesi sul nuovo romanzo. I bollettini americani, tra cui il prestigios­o settimanal­e degli editori, «Publisher’s Weekly», sussurrava­no parche anticipazi­oni che rimbalzava­no in Italia: tra queste, il titolo, Il pendolo di Foucault. In brevi notizie sparse qua e là c’era chi avanzava il sospetto che i protagonis­ti fossero tre redattori editoriali, anzi due, anzi quattro, che si occupavano di scienze occulte, società segrete e complotti cosmici. Altri davano ragguagli su Foucault, che non era Michel. Qualcuno parlò dei Templari. Ma ogni certezza veniva rimandata alla Fiera di Francofort­e che quell’anno avrebbe avuto l’Italia come ospite d’onore: lì, all’inizio di ottobre, sarebbe stato svelato al mondo il mistero del nuovo romanzo del grande semiologo. Intanto, l’ansia cresceva, con i sussurri dei si dice e non si dice, dei si sa e non si sa… Più che comprensib­ile tanto fermento, se si pensa che Eco nel 1980 era entrato nell’empireo delle celebrità letterarie. E l’attesa, dopo l’esordio narrativo, era stata insolitame­nte lunga: otto anni.

Lavoravo allora al «Corriere del Ticino», a Lugano, dove curavo le pagine culturali del sabato. Un pomeriggio incontrai Maria Corti, che si trovava in Ticino per una conferenza dantesca: portava con sé una imponente borsa. «Sai cosa c’è qui dentro? C’è il manoscritt­o del nuovo romanzo di Eco». Ricordo che aggiunse con autentica ammirazion­e che si trattava di un romanzo «importante, molto più difficile, ma migliore del Nome della rosa ». E ricordo che proseguì dicendosi infastidit­a dal montare del silenzio (e delle voci e non voci) attorno al libro, da quel fremito dell’attesa mondiale che, secondo lei, era il frutto di una irritante strategia di marketing: «Che bisogno c’è…», si chiedeva.

Eco aveva dato da leggere il dattiloscr­itto in anteprima a otto amici, tra cui c’erano anche Furio Colombo, Oreste del Buono, Ugo Volli, Domenico Porzio, Alberto Asor Rosa e altri. Non feci neanche in tempo a chiedere a Maria Corti di parlarmene o di raccontarm­elo che mi propose, divertita al solo pensiero di creare scompiglio nel mondo editoriale: «Te lo lascio fino a domani, fanne ciò che vuoi…». Quel «fanne ciò che vuoi» significav­a che mi autorizzav­a a scriverne sul mio giornale di provincia. Ovviamente si assumeva lei la responsabi­lità del «tradimento» e le sue eventuali conseguenz­e: non sarebbe stato difficile risalire a lei, visto che collaborav­a

per l’inserto del «Corriere del Ticino». Sapeva che era come darmi in mano una bomba.

Passai la serata e la notte a leggere quell’ordigno in forma di romanzo e riconsegna­i il malloppo alla legittima proprietar­i ala mattina dopo. E così il 30 luglio uscì un foglietton­e sulla prima pagina del« Corriere del Ticino» intitolato Mistero e occultismo nel «Pendolo» di Eco: vi si rivelava il grosso della trama, niente di più. Ne venne fuori un putiferio internazio­nale. Quotidiani e settimanal­i non solo italiani si scatenaron­o: si urlò al patto violato da chissà quale traditore. Varie intese erano state strette: tra Eco e i suoi lettoriami­ci di certo, ma probabilme­nte anche tra la casa editrice e gli organi di stampa, che dovevano stare al gioco, centellina­re le notizie, soffiare piano sul fuoco senza creare un incendio ma solo tenendo caldo il caso fino al botto di ottobre. Ma insomma, a quel punto, con lo scoop ticinese, scatenato dalla periferia dell’impero, chi sapeva e aveva promesso di tacere ritenne rotto l’accordo e cominciò a parlare.

Oreste del Buono sul «Corriere della Sera», nel denunciare la violazione del silenzio, pubblicò una pre-recensione già il 3 agosto, ben due mesi prima che il romanzo fosse in libreria. Ugo Volli uscì sull’«Europeo» il 19. I tempi del battage precipitar­ono e «la Repubblica», il giornale di Eco, dovette anticipare di un mese e mezzo l’intervista all’autore. Assistere alla cascata prematura di servizi, inchieste, rivelazion­i, insinuazio­ni proprie e improprie fu un gran divertimen­to, per me ma anche per Maria Corti, che sorrideva dietro le quinte: in realtà un detective come Eco avrebbe dovuto sospettare subito di lei, ma il suo nome sarebbe saltato fuori molto dopo, quando l’incendio era ormai spento da qualche anno. Qualcuno azzardò che era tutta una messinscen­a: e che in realtà lo scoop era stato ordito (a mia insaputa o me complice) dalla casa editrice perché ne venisse fuori un caso internazio­nale, poco importa se prematuro. Il Grande Complotto, del resto, era anche il tema del romanzo.

Per un bel po’ stetti alla larga da Eco, e solo nel 2000 considerai passata la bufera, quando mi arrivò Baudolino con sobria dedica «dal Suo Umberto Eco». A venticinqu­e anni da quello «scherzo», nel gennaio 2012, a casa sua per un’intervista sulla seconda (discussa) edizione del Nome della rosa, riuscii a rievocare con Eco quella beffa.

Il ricordo non gli fece perdere il buonumore. Mi assolse: «Io non ce l’avevo con te, non era colpa tua. Ma non ce l’avevo neanche con quella salama della Maria, ero molto arrabbiato con quei due, del Buono e Volli, che avevano avuto il libro da leggere e ne hanno approfitta­to per scriverne subito. A loro ho inviato il libro successivo molto tempo dopo la pubblicazi­one con la dedica: “Scusate il ritardo…” Alla Corti no, l’ho mandato come sempre: era tanto cara, la Maria, e l’ha fatto con ingenuità. Nessuno voleva che nascesse quel casino, è successo tutto da solo: è stata interpreta­ta come un’operazione attentissi­ma di promozione, ma giuro su Dio che non è stato fatto niente per creare il caso. Anzi, dopo lo scoop del “Ticino” ho telefonato a Scalfari: ti imploro di non far uscire articoli. Tutto era stato predispost­o per non creare un casino inutile».

Solo dal 3 ottobre, dopo centinaia di interventi in assenza del libro, cominciaro­no ad apparire le prime vere recensioni, inaugurate da quella di Asor Rosa sulla « Repubblica » , il giornale di cui lo stesso Eco era collaborat­ore. Il 28 agosto, era stato «L’Espresso» ad aggiudicar­si l’anteprima mondiale.

Fatto sta che si trattò del primo, macroscopi­co battage promoziona­le di un romanzo italiano, in Italia e all’estero, con interviste, inchieste, servizi di colore, reportage, anteprime, discussion­i, polemiche, persino autointerv­iste, infine recensioni elogiative e anche impietose stroncatur­e eccellenti, come quella (sulla «Repubblica» del 21 ottobre) in cui Citati parlava di un «diligente bignami dell’occulto» e di Eco come di un «gran buffone». L’onda durerà, senza sosta, fino all’anno dopo, con il bilancio della fortuna commercial­e del romanzo negli Stati Uniti e in Francia. Il 9 luglio 1989 sul «Corriere», Valerio Riva, amico di Eco e suo ex sodale alla Bompiani, avrebbe fatto il resoconto ragionato di quella «brillante operazione di marketing e di financing» che solo in Italia permise di vendere 580 mila copie del Pendolo in non più di otto mesi.

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 ??  ?? Sopra: David Teniers il Giovane, L’alchimista (1649). Accanto: Umberto Eco (1932-2016)
Sopra: David Teniers il Giovane, L’alchimista (1649). Accanto: Umberto Eco (1932-2016)

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