Quel quarto d’ora in cui tutto può succedere
Il vincitore è anche un creativo del marketing. Suo lo spot dell’anno: «La Sanremo è qualcosa di troppo grande, per me». Prenderei questa sola frasetta, la evidenzierei con un bel colore giallo fosforescente, poi la invierei con dedica a tutti quelli che ogni anno, puntuali come le tasse, gridano indignazione perché la Sanremo non è abbastanza dura. Una volta ancora, una volta per tutte, la Sanremo si conferma un preziosissimo cammeo dell’invidiato made in Italy. La sua formula, che neppure il più cinese di Cina riuscirebbe a imitare, è proprio questa: sei ore e mezza sul filo dei nervi per i corridori, sei ore e mezza di noia mortale, quasi un’anestesia, per il pubblico, ma poi quell’esplosivo quarto d’ora che nessun’altra gara al mondo riesce a inventarsi. L’allungo sul Poggio, la discesa da testamento, le curve da occhi sbarrati, lo sprint da capelli dritti, più le cadute, i dispetti e i vecchi merletti. Fino all’ultimo centimetro. Non esiste un altro quarto d’ora capace di alterare in questo modo la frequenza cardiaca, dei corridori e del pubblico. Gare di resistenza, gare spietate, gare con le salite e gare con le pietre, gare così ne esistono ovunque. Vogliamo salvarne almeno una del genere thrilling, pregiata come pezzo d’autore, una che i ciclisti considerano ancora troppo grande per sé? Vogliamo riservare un posto al surreale e all’imprevedibile? Giù le mani, allora. Nessuno tocchi la Sanremo. Come nella vita, abbiamo bisogno del quarto d’ora in cui tutto può succedere.