Tumore alla prostata La tattica «attendista»
Un attento controllo senza interventi immediati dà migliori risultati di una strategia aggressiva quando la malattia è a basso rischio di progressione
cegliere di tenere sotto attento monitoraggio la malattia invece di sottoporsi immediatamente a un trattamento si traduce in una migliore qualità di vita per gli uomini con un tumore alla prostata a basso rischio di progressione.
Secondo uno studio appena presentato al congresso dell’Associazione Europea di Urologia (EAU) la vita degli uomini che decidono di non fare subito un intervento chirurgico o una radioterapia resta pressoché uguale a quella dei coetanei che non hanno avuto una diagnosi di cancro.
Per la loro indagine ricercatori olandesi dell’Erasumus University Medical Center di Rotterdam hanno seguito per un lungo periodo di tempo (fra 5 e 10 anni dal momento della diagnosi) 427 uomini in media 70enni, ai quali hanno fatto compilare dettagliati questionari nei quali si chiedevano informazioni su numerosi parametri: stato di salute generale, percezione del proprio benessere, eventuale stato di ansia sofferto, preoccupazione per l’andamento del tumore, funzionalità urinaria e sessuale.
Gli stessi test sono stati eseguiti da altri tre gruppi di persone: uomini sani, pazienti con carcinoma prostatico sottoposti prostatectomia radicale (l’asportazione totale della prostata) e malati curati con radioterapia.
«Questo è il primo studio a fare un simile paragone sul lungo periodo in quattro differenti categorie di uomini — ha spiegato, durante la sua presentazione all’EAU di Monaco, Lionne Venderbos, la ricercatrice olandese prima autrice dell’indagine —. I risultati indicano chiaramente che i partecipanti arruolati all’interno del protocollo di sorveglianza attiva ( ovvero la strategia che prevede, in determinati casi, di tenere il tumore sotto controllo senza intervenire, ndr), vivono meglio rispetto a quelli operati o trattati con radioterapia: hanno una migliore funzionalità urinaria e sessuale, soffrono meno di incontinenza e la loro qualità di vita risulta molto simile a quella di chi non è malato».
Un’informazione, quest’ultima, che non è affatto di poco conto perché spesso si ritiene che il solo monitoraggio possa essere fonte di grande stress per i pazienti. «La ricerca olandese, invece, conferma quello che mostra anche la nostra esperienza su centinaia di pazienti seguiti da anni in Istituto — commenta Riccardo Valdagni, direttore del Programma Prostata dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, pioniere della sorveglianza attiva in Italia —. Certo non è semplice accettare l’idea di non “eliminare” subito il cancro, è una questione psicologica e culturale. Ma, se ben informati e attentamente seguiti, malati e familiari vivono serenamente e gestiscono al meglio le loro preoccupazioni, come indica il dato sui bassi livelli di ansia degli appartenenti al gruppo seguito con la sorveglianza attiva».
In Italia nel 2015 sono state 35 mila le nuove diagnosi di tumore alla prostata: secondo le statistiche circa il 40 per cento (14 mila) sono forme cosiddette indolenti o a basso rischio di progressione. Si tratta, in pratica, di lesioni di piccole dimensioni e non aggressive, caratterizzate da una crescita che può essere molto lenta.
«Per questi pazienti è possibile adottare una strategia osservazionale come appunto la sorveglianza attiva — spiega Valdagni, che è anche presidente della Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO) —, tenendo sotto stretto controllo nel tempo il comportamento e l’evoluzione del tumore, riservando un eventuale trattamento solo a chi ne abbia in futuro bisogno. Ovvero si interviene con una terapia soltanto se e quando la malattia cambia atteggiamento e intanto si risparmiano agli uomini i possibili effetti collaterali delle cure, incontinenza e disfunzione erettile primi fra tutti. Ma, ad oggi, la maggior parte di quei 14 mila candidati alla sorveglianza finisce invece per fare una partire dagli anni 90 la grande diffusione del test del PSA (Antigene Prostatico Specifico) e l’aumento del numero delle biopsie hanno provocato una crescita delle diagnosi di carcinoma prostatico prima che compaiano sintomi. Ciò ha portato a scoprire anche molti tumori indolenti, che crescono lentamente e raramente saranno un problema per gli interessati. «Si è verificato un eccesso di diagnosi e di conseguenti trattamenti inutili — dice terapia». Il “sorvegliato speciale” viene sottoposto a controlli periodici e programmati del PSA (ogni tre mesi), a viste cliniche con esplorazione rettale (ogni sei mesi) a biopsie di riclassificazione (dopo uno, quattro, sette e dieci anni dalla diagnosi). Esami aggiuntivi vengono poi proposti sulla base di eventuali segnali dubbi per stabilire come procedere.
Oltre agli esami e alle visite è poi indispensabile che si parli con i pazienti, li si aiuti a superare le eventuali difficoltà psicologiche, come l’ansia, e che si instauri con loro un dialogo basato sulla fiducia e su tutte le informazioni di cui necessitano per vivere serenamente.
«Gli esiti di questo studio confermano che la sorveglianza attiva è ben accettata dai pazienti, oltre a essere un approccio sicuro in casi selezionati — dice Alberto Briganti, urologo del San Raffaele di Milano e membro del comitato scientifico dell’EAU —. È importante inoltre che tutti i malati candidabili alla sorveglianza vengano correttamente informati sia della necessità dei controlli periodici sia dell’impatto sulla qualità di vita che potrebbero avere gli effetti collaterali delle terapie».
«La sorveglianza attiva è una strategia scientifica vera e propria che deve rispettare precisi I pazienti vanno inseriti in protocolli ben precisi evitando il «fai da te» nella sorveglianza Michele Gallucci, responsabile dell’Urologia all’Istituto Tumori Regina Elena di Roma —. Per ovviare al problema all’inizio degli anni Duemila è stata introdotta la sorveglianza attiva, un atteggiamento riservato a pazienti selezionati. Gli uomini con una neoplasia «a basso rischio», come suggerisce il termine stesso, hanno infatti alte probabilità che il loro tumore resti fermo nel tempo, non cresca, non dia metastasi». criteri — conclude Valdagni —. È fondamentale che i pazienti siano inseriti in un protocollo strutturato con percorsi e procedure condivise tra le diverse figure professionali coinvolte, evitando così la sorveglianza “fai da te”. Se i pazienti non si presentano alle visite devono essere richiamati e fra i nostri assistiti solo lo 0,1 per cento dei partecipanti è da considerarsi perso al follow up ( controlli nel tempo, ndr) ».