Finisce così la guerra fredda Ma Cuba non è ancora rock
Sarebbe bello adesso se al ritmo di «Satisfaction» si abbattessero i muri delle galere dell’Avana dove sono rinchiusi i dissidenti cubani.
Ora sarebbe bello davvero se al ritmo di «Satisfaction» si abbattessero i muri delle galere dell’Avana dove sono rinchiusi i dissidenti cubani. Ora che i Rolling Stones hanno rotto il muro di Cuba, ora che il rock, bollato sinora dal regime castrista come demoniaco strumento di infiltrazione di uno spirito controrivoluzionario, ha scosso e sconvolto i giovani dell’isola, ora che niente potrà restare come prima, vediamo se la promessa di liberazione di una grande musica saprà misurare i suoi effetti nella realtà. Vediamo se i simboli portano con sé un’energia irrefrenabile di cambiamento. Di rivoluzione vera. Di libertà. Un’emozione straordinaria, Mick Jagger in concerto a Cuba, ha chiuso un’epoca di interdizioni e di proibizioni. Cuba non è più una fortezza impenetrabile. È finita la quarantena dell’isolamento internazionale, l’ultimo brandello della Guerra fredda si sta disfacendo. La musica ha avuto un valore simbolico assoluto nei rapporti tra il comunismo cubano e le democrazie che ammettono il dissenso, l’irriverenza, la trasgressione, i colori, i suoni non irreggimentati. Venivano invitati gli scrittori e gli artisti, ma per parlare bene della rivoluzione cubana e per dipingerla con le pennellate dell’entusiasmo. La musica, quella Cuba la doveva esportare, la salsa, il Buena Vista Social Club, il ritmo del socialismo tropicale, del mare turchese, del sole caldo così lontano dai socialismi freddi e grigi dell’Est europeo prima del Muro. Ma il rock doveva restare fuori. Musica maledetta. Musica contaminata. Mick Jagger poteva far male al socialismo radioso di Cuba più di tanti libri censurati, impossibili da far entrare nell’isola. Il mito della Cuba castrista si
fondava su un clamoroso falso: l’idea che il sole caldo ne mitigasse la potenza repressiva, che in quel paradiso dell’acqua, dell’Avana slabbrata ma viva, decadente ma fascinosa, l’oppressione potesse essere meno cupa, che gli omosessuali rinchiusi in cella fossero solo propaganda yankee, che gli scrittori cubani non si facessero morir di fame nel fondo delle prigioni castriste. Che non ci fosse bisogno dell’incontinenza espressiva del rock per un socialismo diverso. Ora tutto è andato in fretta. La fine delle sanzioni. La guerra fredda che volge alla fine. La bandiera americana che sventola all’Avana. I Rolling Stones a Cuba, l’impensabile fino a pochi anni fa. L’incompatibilità antropologica del rock dei Rolling Stones con ogni genere di dittatura. E dunque la promessa che chi sta dentro all’Avana per aver pensato, detto o rappresentato cose invise al regime possa trarre da quel rock liberatorio l’energia per immaginare un futuro diverso dalle sbarre di una prigione, della prigione in cui i cubani hanno ascoltato clandestinamente la musica dei Rolling Stones come i suoni di una vita impossibile da vivere lì dentro. «Satisfaction» per ricominciare, per chiudere con il passato e inaugurare un’altra èra. Di libertà, finalmente.