BREXIT (O NO) LA DIFFICILE PARTITA ITALIANA
Immaginiamo che il Regno Unito, al referendum previsto per giugno, decida di uscire dall’Unione Europea. Questo dimostrerebbe che le istituzioni che abbiamo faticosamente costruito dal Dopoguerra si possono disfare. L’esempio avrebbe sicuramente un effetto incoraggiante per tutti coloro che sono scontenti di un’Europa vista come incapace di agire nell’interesse comune, percepita come burocratica, inefficiente, vessatrice.
Immaginiamo quindi che, incoraggiati dall’esempio britannico, i movimenti antieuropei ormai sempre più aggressivi anche sul continente colgano l’occasione per chiedere un referendum sulla partecipazione alla moneta unica. Immaginiamo che i governi francese e tedesco, per evitare il rischio della disintegrazione del progetto su cui si fonda l’equilibrio politico in Europa, decidano di contrattaccare. In una zona euro incapace di trovare la via di una maggiore condivisione del rischio necessaria a mettere in campo politiche per la crescita, l’unica strada sarebbe quella di proporre un progetto per un’Europa a due velocità.
L’idea, in sostanza, sarebbe quella di una accelerazione dell’integrazione dell’Europa forte che si doterebbe di un comune ministro delle finanze con poteri di spesa e tassazione oltre alla comune Banca centrale, senza confini interni e con istituzioni di democrazia politica che la legittimino, e di un rallentamento dell’altra che uscirebbe dalla moneta unica in attesa possibilmente di rientrarci una volta messa la casa a posto.
Si parla da tempo della necessità di completare l’Unione monetaria con una maggiore integrazione fiscale, finanziaria e politica. Ne ha delineato il processo il rapporto dei cinque presidenti (Commissione, Banca centrale, consiglio, Parlamento ed eurogruppo), ne hanno parlato i governatori della Banca centrale francese e tedesca, la auspicano gli europeisti convinti che non mancano tra le élite dei Paesi dell’Unione. Ma questa strada non si riesce a percorrere per una fondamentale mancanza di fiducia reciproca tra Paesi. Fiducia assente perché la crisi ha reso i diversi ancora piu diversi e aperto lo spauracchio di trasferimenti a fondo perduto dai Paesi creditori verso i debitori.
Tra lo status quo che ci porta alla paralisi e forse anche verso una disordinata disintegrazione e la strada delle due velocità, immaginiamo quindi che Germania e Francia decidano di percorrere la seconda: una maggiore integrazione tra chi è più eguale e un rallentamento del processo di integrazione con chi è più fragile.
La cosa potrebbe avvenire gradualmente o in modo improvviso in seguito alla Brexit o all’imminente riapertura della crisi greca o ancora da un’emergenza sui rifugiati che porti al dismembramento di Schengen. Ed eccoci quindi di nuovo agli Anni 90. Il grande quesito, come allora, sarebbe la posizione dell’Italia: dentro o fuori il cuore dell’Europa integrata? Difficile immaginare che un Paese grande come il nostro, tra i fondatori dell’Unione, possa rimanerne fuori. Ma è difficile anche pensare che possa farne parte: fragilità finanziaria, alto debito pubblico, istituzioni deboli e scarse prospettive di crescita ci spingono ai margini.
La discussione sul ruolo dell’Italia sarebbe un momento di grande verità anche per noi. Dove vogliamo andare? L’idea che l’Europa e l’euro ci sarebbero serviti come àncora esterna per imporre maggiore disciplina alla nostra politica economica, per spezzare il ciclo di inflazione e svalutazione e portare il Paese a competere attraverso produttività e innovazione è da mettere nel cassetto? L’Europa costituisce ancora un’opportunità o solo un vincolo che ci costringe a politiche e a regole che per noi non funzionano?
Il mio è certamente uno scenario improbabile e fantastico ma, come si fa con gli stressed tests, uno a cui sarebbe bene prepararsi con una discussione non retorica.