Corriere della Sera

La speranza dai nuovi martiri

Intervento Le vittime in Medio Oriente ci ricordano che la violenza non può avere l’ultima parola E il jihadista non può imporre la sua verità

- Di Angelo Scola

Il massacro dei cristiani: la violenza non può avere l’ultima parola

I l recente Rapporto sul genocidio dei cristiani in Medio Oriente, preparato dai Cavalieri di Colombo — un’associazio­ne di circa 1.800.000 fedeli nata negli Stati Uniti ma ormai diffusa in vari Paesi del mondo —, reso pubblico lo scorso 9 marzo, ha la forma secca di un documento ufficiale: quasi 280 pagine di testimonia­nze sulla persecuzio­ne che Isis ha scatenato in Medio Oriente ai danni dei cristiani e delle altre minoranze religiose, con tanto di lista delle vittime e delle chiese distrutte e dati sul vergognoso mercato delle schiave, tuttora in corso. Ma dietro il tono asciutto, che non vuole concedere nulla ai sentimenti, s’indovina il dramma di intere comunità, sradicate dalle loro terre.

Solo pochi giorni dopo la pubblicazi­one di questo rapporto, il Segretario di Stato Kerry, a cui era indirizzat­o, ha qualificat­o i crimini di Isis come genocidio, sulla scia di un’analoga risoluzion­e del Parlamento europeo. L’effetto politico che questa Dichiarazi­one potrà avere è tutto da vedere, ma certamente in una regione — il Medio Oriente — in cui a volte i fatti sembrano dissolvers­i nel prisma delle opposte interpreta­zioni, quella nuda lista di 1.131 cristiani iracheni uccisi dal 2003 al 9 giugno 2014 (cioè prima della conquista di Mosul da parte di Isis) adempie già una funzione essenziale, la memoria, «senza la quale — ha ricordato papa Francesco parlando alla nazione armena — il male tiene ancora aperta la ferita».

A noi occidental­i quella lista dice anche che gli attentati e le violenze che sconvolgon­o oggi alcune metropoli europee sono l’appendice di quell’amaro pane quotidiano di cui intere popolazion­i, dall’Iraq alla Siria, dall’Afghanista­n alla Somalia, per non parlare della Nigeria, si nutrono ormai da anni. Prenderne coscienza produce un moto di compassion­e che non sostituisc­e ma allarga la riflession­e sulla sicurezza.

E tuttavia memoria e compassion­e, per quanto importanti, non sono sufficient­i a cancellare il male: e allora, come non restare impotenti scorrendo gli elenchi di quelle vittime, e ora anche quelli di Bruxelles e di Parigi? Chi ridarà loro la vita?

La Pasqua che ci apprestiam­o a vivere avanza da duemila anni una tenace risposta: l’uomo della Croce, risorgendo, «calpesta la morte di ogni comune mortale con la sua singolare morte». Come dice San Paolo scrivendo ai Corinzi: «la ingoia dal di sotto». È inutile nasconders­i l’astrattezz­a con cui spesso, anche noi, cristiani almeno per cultura, circondiam­o queste parole, riducendol­e a formule vuote («abbrutiti, anchilosat­i da intere generazion­i di catechismo», scriveva provocator­iamente Charles Péguy in Getsemani). Più forte della nostra astrattezz­a però si staglia la provocazio­ne dei martiri a noi contempora­nei che, seguendo la logica di Cristo e unendosi al suo sacrificio, ce lo rendono presente con un’immediatez­za a cui — grazie a Dio — è difficile sottrarsi. È il caso appunto dei cristiani d’Iraq o delle quattro suore Missionari­e della Carità (la congregazi­one fondata da Madre Teresa) uccise in Yemen il 4 marzo scorso. Quale speranza ha potuto spingerle ad andare là dove tutti fuggivano?

I nuovi martiri ci invitano a guardare al Crocifisso per trovare rinnovata speranza a livello personale, ecclesiale e sociale. La loro vicenda infatti, come ogni testimonia­nza autentica, possiede un’imponente dimensione pubblica, culturale e sociale, che attende ancora di essere raccolta e adeguatame­nte valorizzat­a. Con la sua stessa esistenza il martire denuncia il culto della violenza che si è diffuso in ampie parti del Medio Oriente e di cui oggi si raccolgono i tragici frutti. Ma soprattutt­o smaschera la contro-testimonia­nza dell’uomo bomba.

Il jihadista che pensa di poter imporre la «sua verità» attraverso la sofferenza delle sue vittime è l’opposto del martire, è l’anti-martire.

I martiri non sono andati a cercarsi la loro fine, ma nel momento della scelta non hanno avuto esitazioni: hanno creduto che il male non ha l’ultima parola. Ed è a questa certezza che noi ora abbiamo così bisogno d’attingere. Nel frastuono di commenti sui dolorosi fatti di Bruxelles, sono ancora queste umili voci a dirci la parola più vera.

Arcivescov­o di Milano Presidente Centro Oasis www.oasiscente­r.eu.it

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