Solo più Unione potrà salvarci
Agendo da solo, nessun Paese può davvero garantire la sicurezza che promette: bisogna far lavorare insieme i servizi di intelligence, avere squadre investigative comuni, colpire chi offre al Califfato finanziamenti e appoggi logistici
Agendo da solo, nessun Paese europeo può garantire la sicurezza.
Ci vuole più Europa. È apparentemente impopolare dirlo, in giorni nei quali al pianto dei feriti si sovrappongono le urla dei demagoghi che speculano anche sul sangue di Bruxelles pur di convincerci che, per stare sicuri, dobbiamo rinchiuderci nei confini nazionali. E invece no, è questo il momento di ribadirlo senza timidezze, proprio quando abbiamo ancora negli occhi le devastazioni. Se vogliamo rispettare quello strazio, se vogliamo prendere finalmente sul serio quel dolore, l’unica risposta razionale, doverosa, dura è: più Europa. E chi liquida questa prospettiva come buonismo utopista — le ho lette ancora in queste ore, certe parole — è un irresponsabile che, per incassare qualche punto in più nei sondaggi dei prossimi giorni, concorre a mettere a repentaglio il nostro presente e il nostro futuro.
Perché è evidente che bisogna far lavorare insieme i servizi di intelligence, condividere informazioni tra gli apparati di sicurezza, far agire squadre investigative comuni, come appare dai primi orientamenti emersi giovedì sera dal vertice dei Ministri europei della Giustizia e dell’Interno, e questo richiede più Europa. Bisogna colpire il sedicente Califfato nelle sue fonti di finanziamento, e questo richiede più Europa. Sono da bloccare le triangolazioni coperte che gli portano nuove armi, e questo richiede più Europa. Ci vuole il coraggio di chiamare alle proprie responsabilità gli Stati — talvolta partner economici di questa o quella nazione europea — che all’Isis offrono supporto, e questo richiede più Europa. L’Europa di cui i cittadini oggi avvertono ancor più il bisogno: forte, determinata, che non si fa dividere da piccole gelosie tra apparati o da singole convenienze commerciali. Il dolore aiuta a vederlo con una nettezza inedita, ci spinge a mettere finalmente questi temi all’ordine del giorno con urgenza: perché più noi ci dilunghiamo alla ricerca di intese ostacolate dalle divisioni tra Stati, più i terroristi hanno campo libero per colpirci.
Ma perché tutto questo si realizzi stabilmente c’è un passo in più che dobbiamo fare, ed è il contributo che vorrei portare alla discussione comune. Senza giri di parole: si chiama integrazione politica. Gli obiettivi che ci stiamo dando in materia di sicurezza reclamano una cornice istituzionale diversa, più solida, più coesa. Un’unione federale di Stati. È quello il traguardo che bisogna saper raggiungere, con tenacia e prima che sia troppo tardi, prima che tutto si disgreghi: perché questo è oggi il pericolo. Se non ci mettiamo su questa strada temo che resteremo fermi, anche in materia di sicurezza, alle buone intenzioni che stiamo declamando dai tempi delle Torri Gemelle. È il cammino che, nell’ambito di mia competenza, ho intrapreso da mesi con le altre Camere europee. La Dichiarazione che abbiamo sottoscritto a settembre a Montecitorio si intitola, significativamente, «Più integrazione europea: la strada da percorrere». Siamo partiti con 4 firme: oltre alla mia, quella dei colleghi di Francia, Germania, Lussemburgo. In pochi mesi si sono aggiunti gli omologhi di sette altri Stati, e contiamo di arrivare presto ad avere la maggioranza tra i 28 Paesi Ue. L’abbiamo pensata quando ancora non c’erano stati il Bataclan e le altre stragi, ma avevamo chiaro che le sfide e le minacce globali richiedono risposte unitarie: «Agendo da solo — è scritto nella Dichiarazione — nessun Paese europeo può tutelare efficacemente i propri interessi»; serve «un’Europa più forte per affrontare la grave instabilità
Atteggiamento Serve risolutezza, non la durezza umana del filo spinato nel fango di Idomeni, che umilia in modo dissennato chi fugge dall’Isis
che circonda il nostro continente», con una integrazione che «dovrebbe includere tutte le materie attinenti all’ideale europeo, la dimensione sociale e culturale, nonché la politica estera, di sicurezza e difesa».
È così che si mette l’Europa in condizione di essere dura come serve contro il terrore islamista. È questa la durezza che l’Europa deve mostrare, non quella esibita col filo spinato nel fango di Idomeni, nella dissennata umiliazione riservata a chi fugge da quella stessa violenza dell’Isis che semina morte qui da noi. Un’umiliazione che dà nuovi argomenti ai nostri nemici. La loro propaganda invece va sradicata al confine greco, come ai bordi delle nostre grandi città. Assieme ad ogni necessaria misura repressiva, serve guardare in faccia la radicalizzazione dei giovani che nasce dalla marginalità nei ghetti urbani, più che da ragioni religiose, anche se poi a sfruttarla sono, specialmente sul web, i predicatori di odio di un Islam distorto. Sono ragazzi che vivono in una sorta di mondo parallelo, il marchio e la rabbia che si portano appresso ne agevolano il reclutamento. Quanto più vivono questa condizione, tanto più sono disposti a tutto. Per evitare che finiscano nell’esercito del terrore dobbiamo riconoscere il problema, recuperarli alla cittadinanza europea, chiamarli a condividere il nostro sistema di valori. È un lavoro lungo, ma rimandarlo non è solo insensato: è pericoloso.