«PICCOLO SI’, MA SERVONO ALLEANZE»
Alleanze. È la parola che Alberto Vacchi ripete forse più spesso. Alleanze tra imprese, in qualsiasi forma e meglio se sotto forma di «filiera capace di farsi sistema»: perché «piccolo non è più bello», e da un pezzo ormai, ma può essere «ancora la nostra forza». Alleanze tra produttori: se in molte, moltissime aziende i patti tra lavoratori e imprenditori hanno consentito di superare i lunghi anni della crisi, perché quello stesso spirito non dovrebbe permetterci, ora, di trasformare gli «zero virgola» in più robuste percentuali da ripresa? Alleanze però — attenzione — non sempre, o non solo, da scambiare per un «fine in sé». E non è un caso che il leader della bolognese Ima, re mondiale dei macchinari per il packaging, a questo punto usi con una certa parsimonia la definizione «parti sociali». Sa perfettamente che cosa significherà, per chiunque, fare il presidente di Confindustria nell’era della disintermediazione (che conosce altrettanto bene). E se giovedì prossimo a vincere la sfida sarà lui, il candidato sostenuto dagli imprenditori che vogliono un forte segno di discontinuità, è chiaro a tutti — sindacati inclusi — quale sarà il destino della vecchia concertazione.
Lei si siederebbe, ovviamente, a un tavolo con Cgil, Cisl, Uil.
«L’ho sempre fatto, sia nella mia azienda sia come presidente di Unindustria Bologna. Mai, però, pronto a chiudere un accordo per forza, a qualunque costo».
Il che, tradotto nel suo programma, diventa: «Non possiamo subire veti, temere l’impopolarità e conservare l’esistente». A che cosa si riferisce e a cosa punta, slogan sul «contratto modello Federmeccanica» a parte?
«Quello di cui ha più bisogno il Paese, se vuole tornare a crescere e a distribuire ricchezza, è il recupero di produttività. Nessuno vuole attaccare diritti fondamentali, ma è certo che con il sindacato serve un dialogo molto più evoluto».
Sui territori, o in singole aziende, spesso è già così.
«Infatti la sfida è riuscirci a livello nazionale».
Altrimenti?
«Io penso sia possibile darsi una missione comune. Però occorre riconoscere il ruolo dell’impresa come tassello fondamentale della società, il suo valore come produttore e distributore di benessere e ricchezza».
E se non accadesse?
«Viviamo in un mondo che è cambiato e cambia a una velocità impressionante. Se non ti adegui, sei tagliato fuori. Vale esattamente come per le aziende: l’avversario è un mercato in cui la solitudine si paga e le imprese italiane, con le loro dimensioni piccole o medie, potranno vincere soltanto se le loro tante, puntiformi eccellenze saranno aiutate a fare sistema. Aiutate anche da Confindustria, intendo, che deve tornare a essere motore della politica industriale».
Suona come un’autocritica. Peraltro non isolata: ai suoi colleghi ha già chiesto, retoricamente, «possiamo dirci estranei al progressivo degrado?».
«Beh, non è sempre tutta colpa degli altri, no? Però gli industriali italiani l’orgoglio del fare impresa, il senso del suo valore anche sociale non li hanno mai persi. Vogliamo riconoscerlo, e riportare l’impresa al centro? Per il resto, diciamo che in questo mondo velocissimo c’è un’inerzia di cui sono vittime tutti i corpi intermedi. Rimangono legati a schemi vecchi, mentre la politica, piaccia o no, il ricambio l’ha avviato. Perciò, ripeto: accettare il cambiamento si deve, o anche Confindustria rischia di non essere più uno dei principali attori del rinnovamento».