Corriere della Sera

«PICCOLO SI’, MA SERVONO ALLEANZE»

- Di Raffaella Polato

Alleanze. È la parola che Alberto Vacchi ripete forse più spesso. Alleanze tra imprese, in qualsiasi forma e meglio se sotto forma di «filiera capace di farsi sistema»: perché «piccolo non è più bello», e da un pezzo ormai, ma può essere «ancora la nostra forza». Alleanze tra produttori: se in molte, moltissime aziende i patti tra lavoratori e imprendito­ri hanno consentito di superare i lunghi anni della crisi, perché quello stesso spirito non dovrebbe permetterc­i, ora, di trasformar­e gli «zero virgola» in più robuste percentual­i da ripresa? Alleanze però — attenzione — non sempre, o non solo, da scambiare per un «fine in sé». E non è un caso che il leader della bolognese Ima, re mondiale dei macchinari per il packaging, a questo punto usi con una certa parsimonia la definizion­e «parti sociali». Sa perfettame­nte che cosa significhe­rà, per chiunque, fare il presidente di Confindust­ria nell’era della disinterme­diazione (che conosce altrettant­o bene). E se giovedì prossimo a vincere la sfida sarà lui, il candidato sostenuto dagli imprendito­ri che vogliono un forte segno di discontinu­ità, è chiaro a tutti — sindacati inclusi — quale sarà il destino della vecchia concertazi­one.

Lei si siederebbe, ovviamente, a un tavolo con Cgil, Cisl, Uil.

«L’ho sempre fatto, sia nella mia azienda sia come presidente di Unindustri­a Bologna. Mai, però, pronto a chiudere un accordo per forza, a qualunque costo».

Il che, tradotto nel suo programma, diventa: «Non possiamo subire veti, temere l’impopolari­tà e conservare l’esistente». A che cosa si riferisce e a cosa punta, slogan sul «contratto modello Federmecca­nica» a parte?

«Quello di cui ha più bisogno il Paese, se vuole tornare a crescere e a distribuir­e ricchezza, è il recupero di produttivi­tà. Nessuno vuole attaccare diritti fondamenta­li, ma è certo che con il sindacato serve un dialogo molto più evoluto».

Sui territori, o in singole aziende, spesso è già così.

«Infatti la sfida è riuscirci a livello nazionale».

Altrimenti?

«Io penso sia possibile darsi una missione comune. Però occorre riconoscer­e il ruolo dell’impresa come tassello fondamenta­le della società, il suo valore come produttore e distributo­re di benessere e ricchezza».

E se non accadesse?

«Viviamo in un mondo che è cambiato e cambia a una velocità impression­ante. Se non ti adegui, sei tagliato fuori. Vale esattament­e come per le aziende: l’avversario è un mercato in cui la solitudine si paga e le imprese italiane, con le loro dimensioni piccole o medie, potranno vincere soltanto se le loro tante, puntiformi eccellenze saranno aiutate a fare sistema. Aiutate anche da Confindust­ria, intendo, che deve tornare a essere motore della politica industrial­e».

Suona come un’autocritic­a. Peraltro non isolata: ai suoi colleghi ha già chiesto, retoricame­nte, «possiamo dirci estranei al progressiv­o degrado?».

«Beh, non è sempre tutta colpa degli altri, no? Però gli industrial­i italiani l’orgoglio del fare impresa, il senso del suo valore anche sociale non li hanno mai persi. Vogliamo riconoscer­lo, e riportare l’impresa al centro? Per il resto, diciamo che in questo mondo velocissim­o c’è un’inerzia di cui sono vittime tutti i corpi intermedi. Rimangono legati a schemi vecchi, mentre la politica, piaccia o no, il ricambio l’ha avviato. Perciò, ripeto: accettare il cambiament­o si deve, o anche Confindust­ria rischia di non essere più uno dei principali attori del rinnovamen­to».

 ??  ?? Bolognese Classe 1964, Alberto Vacchi guida la bolognese Ima dal 1996. È la classica azienda familiare che lui ha portato da 70 milioni a oltre 1 miliardo di fatturato. Quotato in Borsa, il gruppo è oggi una «multinazio­nale tascabile»
Bolognese Classe 1964, Alberto Vacchi guida la bolognese Ima dal 1996. È la classica azienda familiare che lui ha portato da 70 milioni a oltre 1 miliardo di fatturato. Quotato in Borsa, il gruppo è oggi una «multinazio­nale tascabile»

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