Corriere della Sera

«Così ho rivelato il lato oscuro di Molenbeek Dieci anni fa»

- DALLA NOSTRA INVIATA

Innegabile. Lei l’aveva detto. Anzi, l’aveva scritto, e pubblicato. Nel 2006. Hind Fraihi era una giornalist­a free lance di 29 anni, quando s’infiltrò per due mesi a Molenbeek, il non ancora rinomato quartiere nordoccide­ntale di Bruxelles, dove adesso portano tutte o quasi tutte le piste dell’anti terrorismo franco-belga. E si era subito resa conto di come «il piccolo Marocco», com’era soprannomi­nato il borgo, stesse diventando un vivaio dei reclutator­i di volontari per la «guerra santa».

Sotto le mentite spoglie di una studentess­a in Sociologia alla ricerca di materiale di prima mano per la sua tesi di laurea, Hind, la cui famiglia ha origini marocchine e che quindi padroneggi­a l’arabo, si è intrufolat­a dove difficilme­nte sarebbe potuto arrivare inosservat­o un agente belga: dentro le moschee, nelle stanze degli imam, all’ombra dei predicator­i e fra gli adolescent­i sbandati ai giardinett­i.

Qualche mese più tardi il risultato delle investigaz­ioni di Hind usciva, a puntate, sul quotidiano fiammingo Het Nieuwsblad; e poi in un libro intitolato «Sotto copertura nel piccolo Marocco». «Ciò che ho visto e sentito dieci anni fa si era rivelato già molto inquietant­e. A tratti troppo raccapricc­iante per essere credibile, a tratti decisament­e pericoloso. Da allora, abbiamo continuato a impelagarc­i, rifiutando di guardare la realtà in faccia».

Quale realtà, esattament­e, Hind?

«Conoscevo già bene Molenbeek. Fin da quando ero davvero una studentess­a, e lavoravo come volontaria in un’associazio­ne per i giovani. Erano gli anni 90 e già mi arrivavano voci di tentativi di reclutamen­to tra i ragazzi che sembravano più facili da radicalizz­are. Non era

Reclutamen­to Erano gli anni 90 e già mi arrivavano voci di tentativi di reclutamen­to tra i ragazzi

trovarne in un quartiere a stragrande maggioranz­a magrebina».

Quando le è venuta l’idea di infiltrars­i e come ha fatto?

«Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, quando ero diventata giornalist­a, cominciai a pormi delle domande, a chiedermi se qualcosa del genere sarebbe potuto accadere anche da noi. Così ho pensato di farmi passare per una laureanda che doveva preparare una tesi dal titolo “L’esperienza dell’Islam nei quartieri-ghetto”».

Il suo primo incontro fu con Ayachi Bassam, uno degli imam più radicali di Molenbeek.

«Sì, era stato lui a celebrare nel 1999 il matrimonio di Abdessatar Dahmane, il tunisino che, due giorni prima dell’attacco alle Torri gemelle, probabilme­nte su ordine di Osama Bin Laden, partecipò all’omicidio Massud, il comandante della ribellione afghana. Bassam, che adesso è sulla settantina, è partito poi per la Siria, dove suo figlio è stato ucciso in combattime­nto. E dove lui stesso è stato ferito».

Che cosa scoprì?

«La pericolosa sinergia che si stava formando fra i giovani e la piccola criminalit­à. Le strade erano piene di ragazzini che non andavano a scuola e mi raccontava­no senza reticenze che, sì, certo rubavano, ma il bottino serviva alla guerra santa, e rubare per il jihad non è peccato. Il banditismo aveva

trovato una giustifica­zione religiosa».

Come spiega l’indisturba­ta latitanza di Salah per quattro mesi a Molenbeek?

«Negligenza ed errori struttural­i della polizia e dei servizi di sicurezza. Da dicembre si sapeva che era lì. Da anni, a Molenbeek, ci sono genitori che denunciano l’indottrina­mento dei figli. Perché nessuno sia intervenut­o prima me lo spiego in un solo modo».

Cioè?

«La convinzion­e delle autorità belghe che, guardando altrove, lasciando correre, il Paese sarebbe stato risparmiat­o».

L’equilibrio si è rotto?

«Evidenteme­nte sì».

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