Il rischio nucleare
Innalzata l’allerta sui siti atomici perché potrebbero essere obiettivi sensibili E in Italia resta ancora il problema delle scorie
Il timore I terroristi potrebbero ottenere materiale radioattivo per creare «bombe sporche»
Non si può escludere, data la ripercussione su stampa, televisioni e social network del Nord Europa, che nei mesi scorsi i fratelli El Bakraoui abbiano seguito le notizie sui malfunzionamenti delle centrali nucleari belghe di Doel e Tihange, i due impianti nelle Fiandre e a Liegi che sono da tempo fonte di preoccupazione anche per le vicine Olanda e Germania. Ricavandone, magari, qualche suggestione.
Che il sistema nucleare belga possa essere stato uno degli obiettivi della cellula jihadista è un’ipotesi circolata subito dopo gli attentati all’aereoporto e alla metropolitana di Bruxelles. Un’eventualità che ha fatto tornare attuale anche il timore che qualche cellula terrorista, più che a causare una nuova Fukushima con un colpo di mano militare, possa puntare a confezionare una «bomba sporca», ovvero un ordigno costituito da una carica esplosiva e da materiale radioattivo, come scorie o rifiuti ad alta intensità. Oltre al danno provocato dall’esplosione, ci sarebbe anche quello di disperdere tutto intorno il materiale radioattivo e di contaminare le aree interessate, causandone l’evacuazione forzata e l’impossibilità di utilizzarle prima della necessaria (e lunga e difficile e incerta) decontaminazione. Non servono altri dettagli per intuire quanto possa essere dirompente uno scenario del genere, ad esempio in una grande città.
Il punto fondamentale, in questo caso, è proprio la disponibilità di materiale radioattivo, la cui presenza in Europa è sufficientemente ampia da non consentire di sottovalutare il rischio. Fonti di radioattività che sono custodite non solo in centrali nucleari, ma anche in centri di ricerca, industrie o addirittura ospedali.
Anche in Italia, naturalmente, dove la maggior quantità di materiali sensibili è nelle mani della Sogin, la società pubblica del Tesoro che ha in carico l’uscita del Paese dal « vecchio» nucleare, quello abbandonato dopo il referendum del 1987. Quanto sono sicure le scorie italiane? Dopo la strage del Bataclan del 13 novembre scorso, sui siti Sogin come su molte altre infrastrutture nazionali sensibili il Viminale ha elevato il livello di attenzione a 2 (il livello 1, il più alto, riguarda attacchi in corso).
Le aree nucleari controllate, in particolare, sono otto: quelle delle quattro ex centrali di Caorso, Trino Vercellese, Garigliano e Latina e i quattro impianti del ciclo del combustibile nucleare ex Enea, ovvero Saluggia (Vercelli), Bosco Marengo (Alessandria), Casaccia (Roma) e Trisaia (Matera).
Una vigilanza, tuttavia, che anche oggi viene effettuata da istituti e guardie armate privati e non da forze di polizia, carabinieri o esercito. I siti hanno doppi recinti, telecamere lungo tutto il perimetro e sono oggetto di ronde periodiche. Ma si tratta di precauzioni sufficienti anche con il salto di qualità del terrore internazionale?
Certo, la soluzione «vera» del pluriennale e gravoso problema dei rifiuti radioattivi italiani sarebbe quella di portare a termine i programmi di «condizionamento», ovvero di riduzione del loro volume e della sistemazione in matrici di cemento o di vetro, e di smantellamento definitivo delle vecchie centrali. Si parlava del 2010 e si arriverà a dopo il 2025. Senza contare, poi, che mentre la società è in attesa di un nuovo amministratore de- legato dopo le dimissioni del precedente, l’iter per realizzare il Deposito nazionale delle scorie non è mai veramente partito.
La mappa dei siti potenzialmente idonei a ospitarlo doveva arrivare un anno fa. Ma ci sono state, e ci saranno, elezioni amministrative delicate, e quindi per motivi di opportunità politica la carta resta nei cassetti. Inerzia condita con irresponsabilità. Sembrerebbe un’altra storia da raccontare, ma purtroppo non lo è.