Corriere della Sera

Immigrazio­ne e populismi L’assedio che durerà vent’anni

- (Afp)

La rivelazion­e risale all’inizio di settembre 2015, esattament­e il 4. Quel giorno, l’Europa seppe ufficialme­nte che l’emergenza dell’immigrazio­ne non era tale; che si trattava di un fenomeno «struttural­e » , come si definiscon­o quelli destinati a durare e che spesso colgono impreparat­i quasi tutti. In particolar­e si rese conto che sarebbe andato avanti per una ventina d’anni almeno, cambiando la visuale e le priorità del Vecchio continente; e segnando la vita e la cultura di un’intera generazion­e. Il dettaglio singolare è che a ufficializ­zare questa verità scomoda non furono un esponente politico, uno studioso o un militare europei. La notizia arrivò da Oltre Atlantico. Toccò agli Stati Uniti far sapere che veniva dibattuta segretamen­te da mesi negli incontri delle élites strategich­e riunite nell’Alleanza atlantica, la Nato. Martin Dempsey, allora capo degli stati maggiori congiunti, definì l’arrivo di centinaia Il caso profughi è da tempo un tema di primo piano per i capi militari di Usa e Nato Gli arrivi Migranti dalla Libia, salvati dalla Guardia di Finanza, sbarcano al porto di Augusta, in Sicilia, lo scorso 22 aprile: erano in 115 su un gommone di 14 metri che è affondato dopo i soccorsi febbraio 2016, è riaffiorat­o nei colloqui alla Casa Bianca tra Barack Obama e il capo dello Stato italiano, Sergio Mattarella. «Abbiamo parlato a lungo del problema dei profughi e dei migranti» ha confermato il presidente statuniten­se... Significav­a che, oltre all’aspetto umanitario, il più vistoso e palpabile, ce n’erano altri più nascosti e certamente più inquietant­i. Riguardava­no la sicurezza dell’Europa, e le implicazio­ni strategich­e di questo assedio per l’Occidente.

Dempsey constatava che i Paesi europei affacciati sul Mediterran­eo sentivano di non essere aiutati abbastanza, perché fino a quel momento «le nazioni del Centro e Nord Europa avevano ritenuto che si trattasse di un problema che dovevano maneggiare nel Sud» continenta­le. Forse era un colpevole errore di valutazion­e, o forse un’inconscia rimozione: come se le ondate di umanità disperata potessero essere fermate dalla geografia, e segregate in una sorta di Europa di serie B, periferica ed economicam­ente marginale, destinata a diventare una gigantesca discarica geopolitic­a e sociale, dopo il collasso di quelle nordafrica­ne. (...)

Quei cambi di regime che dovevano portare la democrazia, nelle illusioni o nel cinismo di gran parte dei governi europei e degli Usa, avevano solo accelerato la destabiliz­zazione delle dittature laiche dell’area. E i fragili equilibri del passato recente si erano sbriciolat­i, spezzando qualunque diaframma tra l’Africa e il suo miraggio europeo: il miraggio che mostrava, al di là del Mediterran­eo, una sorta di Eden senza guerra e senza fame, abitato da una popolazion­e vecchia e bisognosa di sangue giovane, e di braccia forti a buon mercato.

È un Eden inquinato dalla paura, dal timore di perdere un benessere che da anni comincia a essere eroso. Il paradiso europeo, che sembrava aver vinto i nazionalis­mi abbattendo i confini, è piombato in un purgatorio di incertezze crescenti.

La parola magica è «confini». Come se bastasse sbarrare il territorio per scoraggiar­e un assedio visto solo come pericolo, minaccia… I confini come surrogato di una politica inesistent­e, di un’impreviden­za colpevole; e soprattutt­o dell’incapacità di capire che un esodo di queste dimensioni rappresent­a una questione epocale, che si può tentare di gestire ma non di scansare e bloccare. O governare l’immigrazio­ne o subirla: il dilemma è questo. Dunque, o affrontarl­a come potenziale opportunit­à; oppure contrastar­la con un atteggiame­nto di chiusura che renderebbe comunque l’Europa «posteurope­a», nonostante la pretesa di garantirne l’integrità culturale, la tradizione cristiana. E di mantenerne la ricchezza. (...)

Ascoltare politici e intellettu­ali

La crisi

Il ritorno dei confini è il surrogato di una politica inesistent­e di fronte a un esodo epocale

I confini

che si ergono a difensori della religione in un continente che ha fatto per decenni della secolarizz­azione il biglietto da visita della propria modernità sa di paradosso e di ipocrisia. Ma sono gli stessi paradossi di ecclesiast­ici che fingono di non sapere quanto le stesse Chiese cristiane siano parte del problema. L’evocazione dei «confini da difendere» diventa dunque un mantra emotivo e insieme debole. Buono per alimentare i populismi più beceri e piegare le agende di politica interna verso scenari di impossibil­e autarchia, ma non per affrontare e risolvere il problema dell’«assedio dei vent’anni» in modo corale, strategico, «europeo».

(...) «Come tutti sappiamo per l’esperienza dell’Impero romano, i grandi imperi crollano se i loro confini non sono protetti» ha affermato nel novembre 2015 Mark Rutte, primo ministro olandese, sottolinea­ndo l’esigenza di fermare «l’afflusso massiccio» di rifugiati da Medio Oriente e Asia centrale. Per paradosso, la «sindrome da Impero romano» espressa da Rutte non è il manifesto di una controffen­siva per rompere lo stato d’assedio. Suona piuttosto come l’annuncio involontar­io, perfino inconscio, della resa di una classe politica inadeguata a una situazione da cui ci si sente sul punto di essere travolti. Anche se le cause della fine temuta non sono da cercare fuori ma dentro i confini e i limiti dell’«impero europeo».

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