Ironico e ottimista, Levy l’anti-francese
Lontano dal «carattere nazionale», lo scrittore ha venduto 35 milioni di copie: «L’umorismo è la cosa più importante»
Lo scrittore francese più venduto al mondo è un perfetto anti-francese. Quanto il carattere nazionale prevede il prendersi sul serio, essere un po’ scostanti, diffidenti verso la ricchezza e — soprattutto negli ultimi tempi — pessimisti, tanto lui è di buon umore, autoironico, felice del successo e convinto che il meglio debba ancora venire. Lo incontriamo in uno dei suoi brevi soggiorni a Parigi, prima che riparta per Manhattan dove vive dal 2008 e dove pochi giorni fa gli è nata, a 54 anni, la prima figlia femmina.
In «Lei & Lui», il suo sedicesimo e penultimo romanzo che esce in questi giorni in Italia, i protagonisti sono Paul e Mia, già presenti nel suo libro d’esordio «Se solo fosse vero». Perché questo ritorno?
«Ci si attacca ai personaggi letterari come se fossero delle persone vere. Come un regista ha voglia di ritrovare i suoi attori, così uno scrittore vuole lavorare di nuovo con i suoi personaggi. Avevo voglia di passare ancora del tempo con Paul, lo scrittore americano, e con Mia, l’attrice inglese, come se fossero degli amici».
Perché ha scelto una commedia, piena di humour, equivoci e malintesi, per parlare del tema dell’identità?
«L’umorismo è la cosa più importante della vita, inteso soprattutto come auto-derisione, come capacità di prendersi gioco di se stessi. Nell’ultimo romanzo, L’Horizon à l’envers, che uscirà l’anno prossimo in Italia, l’argomento è molto serio (i progressi delle neuroscienze, ndr) ma il personaggio è pieno di humour. Si può parlare di cose gravi in modo leggero. Poi, la ricerca dell’identità è un elemento ricorrente nella mia opera. Lei & Lui è una riflessione sul mestiere dello scrittore, sulla creazione di un’identità, sulle apparenze. Nessuno dei personaggi è quel che pretende di essere».
«Lei & Lui» è anche il primo libro che suo padre non ha potuto leggere. Che rapporto aveva con lui?
«Mio padre Raymond, resistente durante la Seconda guerra mondiale, scrittore ed editore di libri d’arte, era la prima persona alla quale chiedevo di leggere i manoscritti. È morto il giorno dopo la fine della stesura di Lei & Lui. Tra noi non c’è mai stata rivalità, solo complicità. Avevo un’ammirazione formidabile per mio padre e per tutta la vita ho voluto essere come lui. C’è questo detto, “All’ombra dei grandi alberi non cresce niente”, ma non è vero: mio padre era un grande albero che non copriva la luce di nessuno, al contrario, orientava le foglie per illuminare le persone attorno a lui. È stata una fortuna essere suo figlio».
Nel suo romanzo c’è un personaggio italiano, l’editore Gaetano Cristoneli. A chi si è ispirato?
«Gaetano è calcato sul mio caro amico Leonello Brandolini, per anni a capo della casa editrice Robert Laffont. Ho un po’ esagerato i suoi tratti, ma Gaetano è Leonello».
A proposito di identità, negli ultimi anni in Francia il dibattito politico e culturale è dominato dalla riflessione, quasi sempre pessimista, sull’identità nazionale, su che cosa significa essere francesi e sul rapporto con gli stranieri. Che cosa ne pensa?
«Mi sembra un falso dibattito. I politici sono molto in ritardo rispetto ai cittadini. Sono intrappolati in arcaismi ideologici e non riescono a comprendere la società, che è meno populista di quanto credano. C’è in Francia un ripiegamento su se stessi che non mi piace».
Per questo ama New York?
«Lì si riesce a fare convivere più identità. Puoi essere newyorchese e pachistano, e italiano, e francese, e così via. Un newyorchese ti chiede da quanto tempo vivi a New York, se da più di sette anni allora sei un newyorchese, l’origine non conta. È molto più difficile sentirsi parigini se si ha un accento italiano. In Francia l’integrazione viene vista come la rinuncia alla cultura d’origine: diventate come noi, assimilatevi. Non abbiamo capito che il mondo non ha più frontiere, non si può tornare indietro. Non è ripiegandoci nella nostra identità che vivremo felici».
È questo motivo che l’ha spinta a lasciare la Francia?
«No, non abito in Francia da molto tempo, ho passato all’estero quasi 24 anni: San Francisco, Londra, New York, la città che più adoro perché vi coabitano 63 comunità diverse e pochi posti al mondo offrono una tale diversità. La Francia resta il mio Paese e lo amo profondamente, ma è come se si chiedesse a un marinaio perché lascia la terra e va per mare. Non c’è niente che non vada bene nella terraferma, è solo che si ha voglia di prendere il largo e conoscere il mondo».
I francesi hanno imparato a perdonarle il successo globale, i 35 milioni di copie vendute?
«Ormai sì, mi pare. Ai miei esordi una specie di intelligentsia mi attaccava molto, ma adesso quella fase è passa- ta. Possiamo dire che li ho presi per stanchezza».
Anni fa Yasmina Reza ha scritto un libro («L’alba, la sera o la notte», Bompiani) per raccontare la sete di potere dei politici. Raccontava tra l’altro che l’allora candidato all’Eliseo Nicolas Sarkozy volle incontrarla perché «un aspirante presidente della Francia deve seguire il Tour de France e conoscere Marc Levy».
«In realtà Sarkozy volle vedermi perché aveva bisogno di informazioni sul mondo editoriale per il libro che lui stava scrivendo. Ci incontrammo a Londra, dove vivevo allora, e furono 20 minuti molto bizzarri. Avevo davanti a me questa specie di Louis de Funès che era interessato solo a se stesso. Gli uomini politici vogliono incontrarti ma poi non hanno niente da chiederti sul tuo lavoro, vogliono parlare solo di se. Ecco perché diffido del potere. Non ho mai voluto lusingarlo, fare parte della Corte del re. Mi piace troppo la libertà per questo. Come diceva Coluche, non ho mai voluto integrarmi in un ambiente perché quando si sta in mezzo non si vede più quel che succede fuori».
Che effetto le hanno fatto gli attentati terroristici in Europa, visti da New York?
«Mi hanno colpito enormemente, come quelli di Madrid o Londra, dove abitavo quando sono avvenuti, o Beirut... È scioccante constatare quanto male possa compiere un piccolo gruppo di imbecilli. Forse sbagliamo a chiamarli terroristi, sarebbe meglio chiamarli i vigliacchi, qualcosa che renda meglio la loro natura. La parola terrorista riconosce loro del potere, quando invece se un uomo conta solo in virtù dell’arma che ha in pugno, significa che è una nullità».
Lei comunque resta un ottimista. Anche nel prossimo romanzo, che parla di umanità futura, progressi tecnologici e trans-umanismo.
«È la storia di tre giovani studenti di neuroscienze che cercano di salvare in forma digitale la coscienza di un essere umano. È un romanzo pieno di speranza. Mi sorprendo sempre nel constatare quanto l’avvenire incuta timore. Uno dei personaggi dice: “Sessant’anni fa Jack Kerouac ha scritto Sulla strada dove il protagonista corre verso il sole. Sessant’anni dopo in La strada di Cormac MacCarthy un padre e un figlio camminano in un mondo post- apocalittico. Quanto è cambiata la visione del futuro”. All’epoca dei primi trapianti di cuore molti erano terrorizzati, temevano che si trasferisse anche la personalità. C’è troppa paura nel mondo. Io sono sempre positivo, anche quando immagino le conquiste della scienza».
Identità Vivo a New York, dove l’origine non conta. È più difficile sentirsi parigini se si ha l’accento italiano