Corriere della Sera

Una nuova lingua, un nuovo ritmo Montale, reinvenzio­ne della poesia

Fin dai primi lavori, il Nobel rifiuta toni magniloque­nti e pose estetizzan­ti E individua una parola capace di tenere insieme aulico e quotidiano

- di Daniele Piccini

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il 1916 ed Eugenio Montale ha vent’anni quando scrive la prima delle poesie poi entrate nella raccolta Ossidi seppia: il testo, Meriggiare pallido e assorto, è un concentra todi suoni aspri e dissonanti, nella calcinata visione del paesaggio ligure, sigillato da una «muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia». Si può dire che il mirabile primo libro di Montale viva anzitutto di una musica, strozzata ma a suo modo tinnante, e di un ritmo. Quando nel 1925 pubblica gli Ossi, il libro più influente dell’intero Novecento poetico italiano, Montale ha poco meno di trent’anni (era nato a Genova nel 1896). La sua sapienza letteraria è tuttavia già affilata. Lettore appassiona­to e vorace senza autentici maestri (studiò per un po’ canto, dopo il diploma in ragioneria), il poeta adopera una parola precisa e tenta di nominare il mondo, in cerca di una verità assoluta che ne sospenda l’inganno.

È quanto Montale suggerisce in Intenzioni (Intervista immaginari­a) del 1946, dove osserva tra l’altro: «All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloq­uenza». Ecco spiegato il prodigio — che si impone all’orecchio del lettore — di un tono nuovo: quello de I limoni («Ascoltami, i poeti laureati/ si muovono soltanto fra le piante/ dai nomi poco usati...») o di Falsetto («Esterina, i vent’anni ti minacciano»). Montale si libera dalle pose estetizzan­ti, ma non cede all’abbassamen­to crepuscola­re, al lamento o al gioco: si inventa, di colpo, una nuova classicità, una parola altrimenti autorevole, che tiene insieme aulico e quotidiano. E ciò per esprimere non solo il «male di vivere», l’«impietrato soffrire senza nome», il «delirio (...) d’immobilità», ma anche la necessità del miracolo. Alla sterilità del demone meridiano il poeta alterna infatti la possibilit­à del «fantasma che ti salva», il baluginare di un «varco», la speranza da offrire in dono a qualcuno.

Già negli Ossi di seppia compare infatti il dialogo con un immaginoso «tu». Tale dialogo — che nutrirà un poeta come Sereni — si intensific­a nelle Occasioni (1939), in gran parte ispirandos­i alla figura della studiosa americana Irma Brandeis, conosciuta a Firenze. Clizia, come viene ribattezza­ta, è al centro in particolar­e dei Mottetti. Qui si dialoga a distanza con la figura dell’amata, la quale, pur assente, invade di segni e barlumi la realtà. La salvezza è possibile solo fuori di sé, portata dal visiting angel. Nominare questa figura è pensare la sua potenza numinosa, la sua presenza: «Ti libero la fronte dai ghiaccioli/ che raccoglies­ti traversand­o l’alte/ nebulose...». Ancora una volta la liberazion­e esiste come intermitte­nza, come lampo: è «luce-in-tenebra».

Dei radi e decisivi libri del primo Montale, La bufera e altro (1956, ma composto tra 1940 e 1954) è quello in cui l’altezza stilistica e la difficoltà tecnica giungono al culmine. La negatività non è più prevalente­mente filosofica, ma storica (basta leggere La primavera hitleriana). Così il «tu» femminile, per opporsi all’incupirsi dell’orizzonte, deve intensific­are la sua valenza salvifica, caricandos­i di attributi che rimandano a Cristo. Come al solito, si verifica una tensione tra opposti e il polo della vita può esprimersi in emblemi anche terrestri e concreti: l’anguilla dell’omonima poesia, un inno alla speranza, o la figura femminile della Volpe. Non c’è dubbio, tuttavia, che il libro più sorprenden­te dell’intera carriera poetica di Montale (che dal 1948 lavora al «Corriere della Sera») sia il successivo Satura (1971). Il miracolo è qui la reinvenzio­ne di uno stile, l’individuaz­ione di un modo, per la poesia, di continuare a darsi in un tempo sempre più invaso da chiacchier­e e consumo. Il poeta vira verso la conversazi­one e l’ironia, ma con una serie di antidoti retorici. I testi di Xenia dedicati alla moglie scomparsa — la Mosca — trovano un laborioso equilibrio tra la discorsivi­tà e il bagliore lirico e sono una riscrittur­a, smorzata e rimodulata, dei Mottetti: anche qui l’assenza è una forma di presenza e la realtà non è quella che si vede.

I libri seguenti non fanno che riprendere, abbassando­la, la nota di Satura. Montale, pur in continuità con la propria storia (lui stesso dice di scrivere il rovescio di un’unica opera), può così mettersi in ascolto di un altro tempo. E può continuare, in forme sempre più ibride, a credere nella poesia, oltre il tintinnare di rime degli Ossi e oltre gli emblemi delle raccolte successive, accordando­la in parte all’opacità della cultura di massa (morirà nel 1981, dopo il Nobel del ’75). Un testo del Diario del ’71 e del ’72 (1973) paragona la Musa del poeta a uno spaventapa­sseri e dice che essa «ha resistito a monsoni/ restando ritta, solo un po’ ingobbita». Ora, conclude il poeta, «dirige un suo quartetto/ di cannucce. È la sola musica che sopporto».

Il merito Trovò il modo di proporre poesia in un tempo sempre più invaso da chiacchier­e

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