Le terre del rugby non cercano mai le scorciatoie
Pare arduo il compito di Conor O’Shea, nuovo c.t. dell’Italia ovale. Perché le difficoltà del nostro rugby sembrano culturali prima che tecniche. Il che significa avere a che fare con la scarsità di alcuni ingredienti decisivi per questo sport, sui quale innestare il lavoro di un allenatore. Dove il rugby, storicamente, ha trovato materiale umano di prim’ordine? Dove la vita è più dura. Tra i minatori del Galles; sulla terra gelida di Scozia, sui prati irlandesi battuti dal vento che O’Shea conosce benissimo; sui Pirenei francesi, aspri e crudi; nei Paesi di immigrazione e sudore, dal Sudafrica alla Nuova Zelanda; dall’Australia all’Argentina. Fatica e disciplina nella fatica, abbinate a un’etica solida, a un naturale rispetto delle regole, come accade in Inghilterra. Il rugby, in questi casi, diventa quasi una conseguenza, ha a che fare con mentalità disposte a una pratica basata sul sacrificio, sul sostegno reiterato. Stiamo parlando di uno sport che si fonda su un sistema rigido. Non sono previsti sconti, scorciatoie. Il fatto è che proprio il rugby cresce dove gli sconti e le scorciatoie non costituiscono alcuna consuetudine. Il che determina uno scarto qui, dove siamo abituati a scovare ogni genere di elasticità di fronte a una regola, dove si tende a scovare la soluzione più comoda o una indulgenza verso ogni trasgressione. Dunque, esistono delle differenze probabili ma sostanziali tra un giovane giocatore gallese e un pari età italiano. Differenze che hanno a che fare con la crescita e una diversa attitudine alla caratteristiche dello sport che praticano. L’Italia ha adottato un sistema simile a quello delle altre cinque nazioni di riferimento, basato sulle accademie. Il problema però riguarda una fase precedente, riguarda ciò che viene insegnato in una famiglia, a scuola, in un club di rugby. Dove, tra diritti e doveri, si formano le persone. Indipendentemente dal rugby.