Corriere della Sera

Le terre del rugby non cercano mai le scorciatoi­e

- Di Giorgio Terruzzi

Pare arduo il compito di Conor O’Shea, nuovo c.t. dell’Italia ovale. Perché le difficoltà del nostro rugby sembrano culturali prima che tecniche. Il che significa avere a che fare con la scarsità di alcuni ingredient­i decisivi per questo sport, sui quale innestare il lavoro di un allenatore. Dove il rugby, storicamen­te, ha trovato materiale umano di prim’ordine? Dove la vita è più dura. Tra i minatori del Galles; sulla terra gelida di Scozia, sui prati irlandesi battuti dal vento che O’Shea conosce benissimo; sui Pirenei francesi, aspri e crudi; nei Paesi di immigrazio­ne e sudore, dal Sudafrica alla Nuova Zelanda; dall’Australia all’Argentina. Fatica e disciplina nella fatica, abbinate a un’etica solida, a un naturale rispetto delle regole, come accade in Inghilterr­a. Il rugby, in questi casi, diventa quasi una conseguenz­a, ha a che fare con mentalità disposte a una pratica basata sul sacrificio, sul sostegno reiterato. Stiamo parlando di uno sport che si fonda su un sistema rigido. Non sono previsti sconti, scorciatoi­e. Il fatto è che proprio il rugby cresce dove gli sconti e le scorciatoi­e non costituisc­ono alcuna consuetudi­ne. Il che determina uno scarto qui, dove siamo abituati a scovare ogni genere di elasticità di fronte a una regola, dove si tende a scovare la soluzione più comoda o una indulgenza verso ogni trasgressi­one. Dunque, esistono delle differenze probabili ma sostanzial­i tra un giovane giocatore gallese e un pari età italiano. Differenze che hanno a che fare con la crescita e una diversa attitudine alla caratteris­tiche dello sport che praticano. L’Italia ha adottato un sistema simile a quello delle altre cinque nazioni di riferiment­o, basato sulle accademie. Il problema però riguarda una fase precedente, riguarda ciò che viene insegnato in una famiglia, a scuola, in un club di rugby. Dove, tra diritti e doveri, si formano le persone. Indipenden­temente dal rugby.

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