C’è anche un grasso che fa dimagrire
È quello bruno, che contribuisce a equilibrare i livelli di glucosio in circolo, riducendo la pressione sul pancreas per produrre insulina
bbiamo addosso, seppure ben nascosta, la soluzione più efficace per contrastare l’epidemia di sovrappeso, obesità e malattie metaboliche come il diabete che dilaga nel nostro Paese?
Forse sì, a giudicare dalle ultime ricerche sul grasso bruno: una sorta di centrale energetica dell’organismo che abbiamo iniziato a conoscere di recente, scoprendo che non solo brucia moltissime calorie per riscaldarci quando abbiamo freddo, ma anche che contribuisce a regolare il metabolismo equilibrando i livelli di glucosio in circolo e riducendo la pressione sul pancreas per produrre insulina.
Lo ha appena dimostrato un’indagine pubblicata su Cell Metabolism, secondo cui esiste anche un ritmo circadiano nell’attivazione del grasso bruno: al mattino si “accende” maggiormente per far fronte alle fluttuazioni della glicemia, meno evidenti in chi ha una maggior quantità di questo grasso, il quale consuma anziché immagazzinare energia.
Averne di più, in altri termini, proteggerebbe dal diabete e potrebbe essere utile anche in chi ha già sviluppato la malattia, perché contenere le oscillazioni del glucosio nel sangue significa essere meno esposti alle complicanze.
Gli autori sottolineano che al momento il grasso bruno non può essere considerato una “cura” per il diabete, ma certo le prospettive sono promettenti, come conferma Saverio Cinti, direttore del Centro per l’Obesità dell’Università Politecnica delle Marche ad Ancona ed esperto di tessuto adiposo: «Al grasso bruno serve molto glucosio per il suo metabolismo e si è visto, nei topolini, che impedendone il funzionamento si sviluppano iperglicemia e diabete; trapiantandolo nell’addome di animali da esperimento la sensibilità all’insulina aumenta; inoltre, si è scoperto che produce beta-trofina, una sostanza che agisce direttamente sul pancreas favorendo la produzione di insulina».
Una miniera di vantaggi, ma di grasso bruno non ne abbiamo a volontà e soprattutto non sempre è nella sua forma attiva.
«In chi ha meno di 30 anni lo si trova “funzionante”, nei quarantenni esiste come tale solo in circa il 20 per cento delle persone, negli over 50 è raro. Ciò non significa tuttavia che non possa attivarsi di nuovo, in determinate condizioni — osserva Cinti —. Inoltre la sua quantità è correlata all’indice di massa corporea: tanto più è elevato, quanto più il tessuto adiposo bruno tende a trasformarsi in grasso bianco, quello deputato a immagazzinare energia. Di certo avere 150 o 200 grammi di grasso bruno significa essere più avvantaggiati rispetto a chi ne ha di meno».
Stando così le cose, viene spontaneo chiedersi se e come sia possibile “accendere” il grasso bruno per consumare più calorie e allontanare (o perfino trattare) il diabete.
Il freddo è il principale interruttore fisiologico del grasso bruno, che in estate infatti è “dormiente”; con le basse temperature si hanno i brividi, ovvero contrazioni muscolari che producono irisina, un ormone che si forma anche con l’esercizio fisico e può attivare il tessuto brucia-grassi.
«L’obiettivo è creare calore per proteggere le cellule dell’organismo, che possono sopravvivere e funzionare in un intervallo di temperature molto stretto attorno ai 37 gradi — sottolinea Cinti —. Il freddo è una minaccia, da qui l’importanza della termogenesi da grasso bruno, un tessuto che non a caso si trova per lo più attorno all’arco aortico e ai suoi rami principali, soprattutto vicino al collo: riscaldare il sangue che esce dal cuore significa portare calore ovunque e in particolare all’organo più prezioso e vicino, il cervello».
Escluso di vivere in celle frigorifere per tenere sempre in funzione il grasso bruno, esistono altri modi per accenderlo? «Il più efficace uando fa troppo freddo o si è esposti alle basse temperature molto a lungo e la riserva di grasso bruno non basta, avviene il browning, ovvero parte del normale adipe si trasforma in tessuto “brucia-energia”; se la dieta è troppo calorica e il grasso bianco non basta ad accumulare l’energia introdotta si ha invece il whitening, passaggio del grasso da bruno a bianco. «Fenomeni essenziali alla sopravvivenza perché le cellule hanno bisogno di stare a una attivatore è il recettore beta-3 adrenergico: assente nel sistema cardiovascolare e in quello respiratorio, si trova sul grasso bruno ma anche sulla vescica e le vie biliari — risponde l’esperto —. Un agonista selettivo per i recettori beta-3 già in farmacia per la cura della vescica iperattiva, di recente si è dimostrato capace di attivare il tessuto adiposo bruno più di un’esposizione per due ore a 14 gradi. Servono studi per dimostrare che non ci siano effetti collaterali e sia utile per gli obesi, ma è un buon punto di partenza».
Non è l’unico: Cinti, assieme ad Alessandro Bartolomucci dell’Università di Minneapolis, ha di recente scoperto che il “browning” (cioè la trasformazione del tessuto adiposo bianco in bruno) è possibile anche in topolini privi dei recettori adrenergici che siano sottoposti a particolari tipi di stress.
«Il tessuto si rimodella, viene innervato e vascolarizzato e vi abbiamo trovato marcatori specifici per l’ATP e l’adenosina, un neurotrasmettitore delle vie purinergiche: recettori di questo tipo sono anche nel grasso bruno umano, attivare queste vie potrebbe rivelarsi utile — osserva Cinti —. Inoltre, si è visto che recettori specifici per i mineralcorticoidi servono a temperatura precisa e di energia: oggi la trasformazione da cellule brune a bianche a causa di un’alimentazione ipercalorica contribuisce alla obesità, ma l’uomo primitivo doveva accumulare energia quando c’era — spiega Saverio Cinti dell’università di Ancona —. C’è poi il pinking, la trasformazione di cellule adipose in ghiandola mammaria nel sesso femminile: altra funzione importante per la sopravvivenza della specie».