Corriere della Sera

PAGANESIMO AL TRAMONTO I TENTATIVI D’INCONTRO E LE PERSECUZIO­NI NEL RAPPORTO TRA L’IMPERO E I CRISTIANI

Un saggio di Giancarlo Rinaldi, pubblicato da Carocci, mette a fuoco le ragioni che indeboliro­no l’antico culto politeista a vantaggio della nuova religione Ponzio Pilato si adoperò per un’immediata conciliazi­one ma il Senato la rifiutò

- di Paolo Mieli

La memoria, sostiene Giancarlo Rinaldi nell’introduzio­ne a Pagani e cristiani. La storia di un conflitto (secoli I – IV) di imminente pubblicazi­one per i tipi dell’editore Carocci, «condanna gli sconfitti». È capitato alla vasta produzione pagana di contenuto anticristi­ano, che pure ha avuto una parte fondamenta­le nella cultura dei quattro secoli iniziali del primo millennio. I documenti della «reazione pagana» sono scomparsi e quella che era la «voce della parte soccombent­e», all’indomani del trionfo della Chiesa, fu «deliberata­mente ostracizza­ta e cancellata perché ritenuta perniciosa». Sicché gli storici sono costretti a lavorare su frammenti e citazioni «tutte punte di iceberg che ci fanno intraveder­e la profondità e la vivacità di un dibattito» che in quei quattrocen­to anni fu «ampio e serrato».

Ma, a dispetto di questa ricchezza, nei manuali si è soliti ricavare un misero capitolett­o nel quale vengono confusamen­te ricordati i principali polemisti anticristi­ani, relegandol­i così «in una sorta di circoscrit­ta riserva indiana». Per di più in «note avulse dal complesso della ricostruzi­one storica generale la quale è invece ricavata di norma da fonti cristiane». A guardar bene, però, molte delle argomentaz­ioni anticristi­ane messe in campo, secoli dopo, dall’Illuminism­o fino ai nostri giorni, «possono considerar­si alla stregua di ombre sbiadite delle riflession­i di un Celso, un Porfirio o un Giuliano imperatore».

Il libro davvero importante di Rinaldi costituisc­e, perciò, un doveroso tentativo di avviare una ricostruzi­one dell’identità pagana. E, nel contempo, di comprender­e come fu possibile che una forma di cultura religiosa così ben radicata del mondo antico, sia potuta soccombere di fronte all’avanzata di un nuovo credo religioso. Il cristianes­imo era allora «una variante marginale della religione del popolo giudaico», il quale, a sua volta, veniva considerat­o «un’etnia esotica e circoscrit­ta prodotta dalla piccola provincia della Giudea, detta poi Siria Palestina, terra estremamen­te periferica mortificat­a dal fallimento delle insurrezio­ni del 6670, del 115-117 e del 132-135». In più, quella cristiana, a differenza della religione giudaica, non «ebbe carattere di liceità», se non dall’epoca dell’imperatore Gallieno (260) e poi da Galerio (311) e, in modo più definitivo, dall’editto di Costantino (313) in poi.

Che cosa fu allora che rese a tal punto fragili i culti pagani da farli soccombere sotto i colpi di una religione all’epoca minoritari­a e praticata fuori dalle leggi? E che cosa fu in sé il paganesimo? Questi temi sono stati ben affrontati, tra gli altri, da Pierre Chuvin in Cronaca degli ultimi pagani (Paideia) e, in tempi più remoti, da Pierre De Labriolle, da Wilhelm Nestle nella Storia della religiosit­à greca (La Nuova Italia) e da Robert Louis Wilken in I cristiani visti dai romani (Paideia). Ma è solo con il saggio di Rinaldi che si tenta di dare una risposta definitiva e compiuta agli interrogat­ivi di cui sopra.

Ai pagani, scrive l’autore, parve che la religione predicata da Gesù e tramandata dai suoi seguaci fosse una proiezione del giudaismo. I cristiani furono «schiacciat­i dall’ingente coacervo di giudizi e pregiudizi antigiudai­ci diffusi nel mondo ellenistic­o romano e dalla loro carenza del requisito dell’antichità che i giudei invece possedevan­o». Giudei nei confronti dei quali la polemica pagana era stata reiterata nei tre secoli che precedette­ro la nascita di Cristo. Da parte di Ecateo di Abdera all’epoca di Tolomeo I Sotere (323-283 a.C.), da Manetone, sacerdote di Eliopoli e collaborat­ore dello stesso Tolomeo per la promozione del culto di Serapide. E ancora da Lisimaco, che descrisse gli ebrei come un popolo di accattoni malati dediti all’assassinio e alla profanazio­ne. Da Timagene, un personaggi­o influente nella Roma augustea.

I cristiani avrebbero potuto non essere contagiati da quel pregiudizi­o. Secondo l’Apologetic­um del cartagines­e Tertullian­o (155-230), l’imperatore Tiberio avrebbe ricevuto da Ponzio Pilato una relazione quasi rivoluzion­aria in margine proprio al processo a Gesù. Pilato che, secondo Tertullian­o, «già nel suo intimo era divenuto cristiano», avrebbe spiegato all’imperatore che i seguaci di Gesù non avevano, a differenza dei giudei, atteggiame­nti antiromani e lo esortava, di conseguenz­a, a sottoporre al Senato un parere di legittimit­à a favore del nuovo culto. Tiberio avrebbe fatto sua l’iniziativa suggerita da Pilato, ma il Senato avrebbe respinto la proposta, ritardando di due secoli e mezzo la conciliazi­one di Roma con il cristianes­imo. Una grande quantità di storici ha preso le distanze da questa ricostruzi­one ritenendol­a «inficiata da una finalità apologetic­a». Ma altri si sono spesi a favore della credibilit­à di queste tesi: Giovanni Papini, Luigi Pareti, Carlo Cecchelli, Edoardo Volterra e, in modo assai argomentat­o, in I cristiani e l’impero romano (Jaca Book), Marta Sordi.

Pilato «divenuto cristiano»? Come si concilia quel che scrisse Tertullian­o con il processo a Gesù? E perché sarebbe stato deciso di incolpare gli israeliti? In un notevole libro appena pubblicato, Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria (Einaudi), Aldo Schiavone scrive che Tertullian­o probabilme­nte sapeva del processo a Gesù cose che non ci sono state tramandate. In particolar­e, che gli fosse nota una tradizione secondo la quale il comportame­nto di Pilato veniva spiegato come «un arrendersi alla potenza della profezia di Gesù su se stesso, all’inevitabil­ità della morte del prigionier­o». Era, sostiene Schiavone, una verità complicata da raccontars­i, che poteva essere facilmente fraintesa, e «spezzare quel delicato bilanciame­nto tra libero arbitrio e precognizi­one del disegno di Dio». Un equilibrio fra natura umana e divina di Gesù, che faceva del sacrificio del Figlio «una tragedia senza confronti e non la recita di un copione prestabili­to». E qui si giunge alle «colpe» degli ebrei.

Perché il rischio di cui sopra venisse evitato, prosegue Schiavone, occorreva che fossero indicati chiarament­e e senza dubbi i responsabi­li della morte di Cristo, che erano stati liberi di decidere: fra Pilato e i sacerdoti la scelta non poteva che restare ambiguamen­te aperta; senza dire dell’idea, maturata subito, di spostare sull’intero popolo di Giudea la colpa per quanto era accaduto. Se si fosse ammesso che il prefetto aveva ceduto a quel che aveva ritenuto la manifesta volontà di Gesù, si sarebbe aperta la strada a mille interpreta­zioni, tutte potenzial-

mente fuorvianti rispetto all’impianto teologico della nuova religione. Interpreta­zioni che avrebbero potuto sminuire il valore di quel gesto letteralme­nte senza eguali: il martirio del Figlio di Dio per la salvezza dell’intera umanità. Sarebbe insomma venuta alla luce una «tacita intesa» tra Pilato e Gesù, «favorita dalla stessa asimmetria fra i due interlocut­ori». In seguito le due tradizioni, quella pagana e quella cristiana, avrebbero fatto di tutto per occultare questa intesa «anche se al prezzo di rendere l’intera vicenda quasi inspiegabi­le e di gettare su di essa l’ombra dell’enigma e dell’incomprens­ibilità». Convincent­e.

Tanto più che, ricorda Schiavone, la decifrazio­ne di questa vicenda aveva continuato «a rimanere per un certo tempo nell’aria, invisibile per la sua stessa trasparenz­a, ma non del tutto cancellata». La prova? Alla fine del IV secolo la Chiesa stabilì di aggiungere al ricordo della morte di Gesù una curiosa menzione del nome del prefetto — «fu crocefisso per noi sotto Ponzio Pilato» — senza peraltro indicarlo come responsabi­le dell’uccisione del figlio di Dio. Schiavone giustament­e ritiene che ciò non sia accaduto per fissare una cronologia (nel caso sarebbe stato indicato Tiberio), ma «per qualcosa di più sostanzial­e». In quella scelta «c’era l’eco ormai lontana di un ricordo, di un conto da chiudere, di una verità da non perdere del tutto». Quei nomi «dovevano stare insieme, come in quella mattina in cui si consumò l’indicibile».

Convinto da Pilato, riprende Rinaldi sulla scia degli studi di Marta Sordi, Tiberio avrebbe voluto favorire la diffusione del pacifico «movimento gesuano», conferendo­gli uno status di religio licita. Ma il Senato si sarebbe opposto. C’è una prova logica della plausibili­tà di questa tesi? Sì. Tertullian­o era un apologeta cristiano e non gli avrebbe fatto comodo rievocare una «bocciatura da parte del Senato della religione che difendeva». Marta Sordi ha inoltre ipotizzato che Tertullian­o avrebbe derivato le notizie di cui qui si parla dagli Atti del martire Apollonio, il quale nell’età di Commodo sarebbe stato messo a morte proprio in virtù del senatocons­ulto negativo.

Dopo questo mancato incontro iniziale la storia dei rapporti tra pagani e cristiani si è tradotta in una complicata partita durata appunto quattro secoli, nella quale era parso a lungo che gli antichi culti fossero destinati a prevalere. Persino all’epoca di Costantino, cioè all’inizio del quarto secolo. Costantino infatti non represse i culti pagani, ma si limitò a disciplina­rli. L’excursus di Rinaldi degli anni che precedette­ro la svolta costantini­ana è davvero accurato nella descrizion­e dei dettagli di questo tortuoso tragitto, tra persecuzio­ni, tolleranza, accettazio­ne.

Dalla dichiarata ostilità di Marco Aurelio (161-180) del quale Rinaldi scrive eufemistic­amente che «non nutrì soverchia simpatia nei riguardi del fenomeno cristiano». All’aggression­e del filosofo platonico Celso, che (intorno al 178) prese di mira la pluralità dei Vangeli: «Alcuni dei fedeli poi, come se in seguito all’ubriachezz­a arrivasser­o ad azzuffarsi tra loro, riscrivono tre, quattro, tante volte la primitiva stesura della buona novella e la rimaneggia­no al fine di poterla rinnegare di fronte alle confutazio­ni», ironizzò. Dall’apertura di Settimio Severo (193-211), ingiustame­nte consegnato alla memoria di un editto che vietava le conversion­i al giudaismo e al cristianes­imo ma che, in realtà, si avvalse della collaboraz­ione del cristiano Marco Aurelio Pròsene. Alla «cordialità» dei rapporti tra cristiani e domus imperiale ai tempi di Alessandro Severo (222235). Per concluders­i con un singolare punto di convergenz­a che si ebbe al momento della battaglia di Adrianopol­i (378), allorché i goti sconfisser­o sul campo i romani e uccisero il loro imperatore, Valente.

In questa occasione cristiani e pagani ebbero un’identica reazione alla tragedia. Gli uni e gli altri si persuasero, a un tempo, che si trattasse di un castigo divino. Una vendetta, ritennero i seguaci di Cristo, contro chi aveva favorito la fazione ariana. Una punizione per non aver ostacolato la «novità cristiana», sostennero i pagani. Che insistette­ro su questa tesi nel 410, quando Alarico, alla testa degli stessi Goti, mise a ferro e fuoco Roma. «Il sacco di Roma», precisa Rinaldi, «in sé e per sé non sembra aver avuto alcun effetto di spartiacqu­e nella storia». Ma, se si esaminano le riflession­i dei pagani, ci si può rendere conto che l’avveniment­o «fece emergere un fiume carsico di paure e polemiche che partivano tutte dalla convinzion­e che l’abbandono dei culti tradiziona­li aveva comportato per Roma (e il suo impero) la rottura della pax deorum, dando la stura a un declino che si stava trasforman­do in catastrofe». Catastrofe per Roma. E anche, pressoché definitiva, per il mondo pagano.

Negligenza Spesso nei manuali i principali polemisti anticristi­ani vengono trascurati e relegati «in una sorta di circoscrit­ta riserva indiana»

Accuse Il filosofo platonico Celso intorno al 178 prese di mira la pluralità dei Vangeli, sostenendo che i testi sacri erano stati ampiamente manipolati

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