Gli eccessi kolossal di Terry Gilliam nell’opera visionaria «Benvenuto Cellini»
Quando più quando meno, la musica di Hector Berlioz è sempre visionaria. Nel caso di Benvenuto Cellini, l’opera del 1838 ispirata all’autobiografia romanzata (e dunque cara ai romantici) dell’orafo e scultore fiorentino del ’500, lo è a un grado «folle». Di tutto e di più è ammassato in una partitura: toni e registri antitetici, dal comico al solenne, ritmi e strumentazioni che cambiano ogni poche battute, timbri e dinamiche mai sentite, stili vocali dallo ieratico al belcantistico. Per gli interpreti è una specie di rebus. Perciò il Cellini circola poco. All’Opera di Roma affrontano però la sfida con coraggio e raccolgono lusinghieri consensi.
Solo ammirazione per il povero Roberto Abbado scritturato per l’occasione. Deve aver studiato chissà quanti mesi, però garantisce un lavoro meticoloso. Gestisce masse sonore complesse e «prepotenti», tiene insieme il coro che «scappa» da tutte le parti — e non perché non sia ben istruito da Roberto Gabbiani — sottolinea i colori, individua e valorizza quel poco di arioso che la musica offre. E valorizza le qualità di un cast discretamente ben assemblato, che ruota attorno al protagonista John Osborn (ottimo), affiancato con buona professionalità da Nicola Ulivieri, Mariangela Sicilia, Alessandro Luongo e Marco Spotti.
In platea, alla «prima» ci sono più giovani di quanti se ne vedano di solito all’Opera. Molti sono lì perché fan di Terry Gilliam, alla sua seconda regia lirica dopo La damnation de Faust, sempre di Berlioz. Gilliam sguazza in questo mondo. Ai mille ingredienti sonori ne aggiunge altrettanti visivi: spavalde maschere di carnevale, imponenti statue, festoni, coriandoli, costumi coloratissimi, ambientazioni kolossal in luoghi «faustiani» dove Roma, Venezia e Firenze sono solo citate. Sarebbe meglio prosciugare. Ma il peccato originale dello spettacolo, comunque godibile, è che tratta naturalisticamente una realtà che di reale ha poco o nulla, proprio perché visionaria appunto.