Il passaporto nel covo che incastra gli apparati
Èla prova regina, l’elemento chiave per dimostrare il depistaggio. Il ritrovamento del passaporto di Giulio Regeni nel covo della banda di finti poliziotti accusati di averlo torturato e ucciso dimostra la messinscena degli apparati di sicurezza egiziani. Appare ormai evidente — per ammissione dello stesso ministro dell’Interno del Cairo Magdi Abdel-Ghaffar, quando ha assicurato che «l’indagine non è affatto chiusa» — che il gruppo criminale è estraneo alla cattura e all’assassinio del ricercatore italiano. E dunque il fatto che i banditi fossero in possesso del suo documento e del tesserino universitario viene ritenuto fondamentale per i magistrati italiani, perché può consentire di far scoprire chi glielo ha consegnato. È quanto il team investigativo italiano composto da poliziotti dello Sco e carabinieri del Ros chiederanno dunque all’incontro del 5 aprile con i colleghi egiziani. La delega del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Sergio Colaiocco è esplicita: ottenere l’elenco dei «contatti» dei cinque uomini — peraltro uccisi nel corso di una sparatoria — potendo esaminare i loro tabulati telefonici, gli spostamenti nel giorno del rapimento del giovane e in quello del ritrovamento del corpo, ogni altro elemento utile a capire con chi abbiano avuto rapporti prima di essere eliminati ed evidentemente poi utilizzati come capro espiatorio.
I pubblici ministeri italiani sono adesso in prima linea nella ricerca della verità, ma non si può credere di delegare esclusivamente a loro questo compito. Perché se davvero si vuole sapere chi sono gli assassini di Giulio Regeni, all’iniziativa giudiziaria si deve affiancare un’azione politica forte e decisa. Un’iniziativa del governo che faccia valere le proprie ragioni proprio chiedendo conto del rinvenimento di quegli oggetti personali nel covo della banda. L’ennesima presa in giro.