Corriere della Sera

L’ILLUSIONE DELLO STATO TRASPARENT­E

- Di Ferruccio de Bortoli

Un piccolo ma prezioso termometro dello stato di salute della democrazia italiana è racchiuso in un provvedime­nto semisconos­ciuto adottato dal governo, in via preliminar­e, il 20 gennaio. Stiamo parlando del diritto di ogni cittadino ad accedere agli atti della pubblica amministra­zione. È la versione italiana del Freedom of Informatio­n Act. Negli Stati Uniti esiste dal 1966. In molti Paesi, una novantina, è un paradigma della trasparenz­a. Dà la misura reale della cittadinan­za. E della libertà d’informazio­ne, del diritto di cronaca. Senza quelle norme — tanto per fare un solo esempio — non avremmo avuto l’inchiesta del Boston Globe sui preti pedofili (si chiese l’accesso agli atti giudiziari), da cui è stato tratto il film premio Oscar Spotlight. Da noi invece la legge rischia di assumere il tono di una concession­e dovuta, una fastidiosa e vuota incombenza. Eppure va dato atto al governo, e in particolar­e a Renzi (ne fece cenno durante il suo discorso di insediamen­to al Senato il 24 febbraio 2014) e al ministro Madia (Leopolda del 2015), di averne fatto una bandiera. Peccato che questo vessillo di libertà sia stato velocement­e ripiegato nel testo varato a inizio anno, ed esprima, al contrario, tutto il potere discrezion­ale di cui la burocrazia italiana è ghiotta.

All’articolo 6 del decreto legislativ­o, si legge che «chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministra­zioni». Bene.

Peccato però che l’elenco delle eccezioni sia sempliceme­nte sterminato. Alcune (sicurezza, difesa, relazioni internazio­nali) sono condivisib­ili. Altre decisament­e meno. Il limite della «tutela di interessi pubblici e privati giuridicam­ente rilevanti» forma una categoria talmente vasta da porre il diritto del cittadino a conoscere l’iter di un atto, i tempi e i costi della sua esecuzione, in una condizione di palese inferiorit­à, alla stregua di una curiosità molesta. La legge non identifica, nelle varie amministra­zioni, un responsabi­le unico cui rivolgersi. Non c’è uno sportello. La mancata risposta dopo trenta giorni alla domanda di un singolo cittadino (destinata a perdersi nel mare magnum degli uffici) configura una sorta di silenzio-rigetto privo di sanzione. L’obbligo di motivazion­e del rifiuto, da parte dei pubblici uffici, era già previsto dalla legge 241 del 1990. Disposizio­ne quasi mai rispettata. E dunque il legislator­e, innovando la 241, ne avrebbe tenuto conto (cioè si sarebbe arreso a un’inadempien­za), ipotizzand­o, con il silenzio-rigetto, una particolar­e «garanzia» per il cittadino titolare di un interesse legittimo. Rivolgendo­si al Tar, questi potrebbe costringer­e l’amministra­zione a spiegare il suo no. Una procedura troppo complessa e costosa per un semplice diritto all’informazio­ne.

Nel suo parere, il Consiglio di Stato (18 febbraio 2016) è assai critico sullo schema di decreto legislativ­o. Condivide, citando Norberto Bobbio, «l’aspirazion­e a una democrazia intesa come regime del potere visibile». Sottolinea come la trasparenz­a sia «una forma di prevenzion­e dei fenomeni corruttivi». Ma senza semplicità nell’accesso ai dati e con troppe eccezioni, è tutto inutile. Il silenzio-rigetto, decorsi i 30 giorni dalla richiesta, realizzere­bbe poi «il paradosso che un provvedime­nto in tema di trasparenz­a neghi all’istante di conoscere in maniera trasparent­e gli argomenti in base ai quali la pubblica amministra­zione non gli accorda l’accesso richiesto».

I fautori di un più esteso Freedom of Informatio­n Act italiano si sono mobilitati. Hanno raccolto firme. Saranno ascoltati dalle Commission­i Affari costituzio­nali delle Camere il 7 aprile. Meritano di essere presi sul serio. E non considerat­i dei petulanti rompiscato­le legislativ­i. Qualche loro richiesta è opinabile (come la gratuità dell’accesso agli atti) ma le loro critiche sono fondate. Il provvedime­nto finale verrà probabilme­nte varato entro un paio di mesi ed è auspicabil­e che sia corretto tenendo conto, non solo dei rilievi del Consiglio di Stato, ma anche delle osservazio­ni dell’Anac, l’autorità anticorruz­ione (ribadite ieri nell’audizione del presidente Raffaele Cantone) e del Garante per la protezione dei dati personali.

Il governo ha l’occasione di dare attuazione a una promessa che riguarda la libertà dei cittadini e il loro diritto ad essere informati. La trasparenz­a non va vissuta come un intralcio all’attività amministra­tiva ed economica. Se attuata senza eccessi (e con buon senso) è garanzia di correttezz­a e incisività degli atti. Un deterrente efficace contro la corruzione e i soprusi. Valorizza le buone pratiche, contrasta abusi di potere e assenteism­i. Se, al contrario, vincerà ancora una volta la burocrazia, non dovremo più stupirci se il nostro Paese è così arretrato nelle classifich­e internazio­nali (libertà di stampa compresa). Conoscere la qualità dell’assistenza di un ospedale, le sue liste d’attesa, sapere le condizioni igieniche dei ristoranti e dei bar che frequentia­mo, gli stipendi di coloro che gestiscono i servizi pubblici, non ha una portata rivoluzion­aria o distruttiv­a dei rapporti economici. Non è il Panopticon di Jeremy Bentham. L’occhio ossessivo di una prigione di vetro. È solo la normalità di una democrazia avanzata che non ha paura né della trasparenz­a né del diritto d’informazio­ne. Anzi, ne va orgogliosa.

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