Corriere della Sera

Allegria e politica della minigonna

SE IL COSTUME È POLITICA: LA LIBERTÀ DELLE DONNE SI LIMITA COPRENDO LA PELLE

- Di Pierluigi Battista

La minigonna non è mai stata (solo) un capitolo della moda, ma un’idea del mondo. Fin dal giorno che Mary Quant l’ha imposta con la sfrontatez­za e l’allegria che caratteriz­zavano gli anni Sessanta.

Anche ad Amsterdam devono aver preso ispirazion­e dalla Sottomissi­one di Michel Houellebec­q, e ancora una volta questa storia della guerra culturale e religiosa che si è scatenata in Europa sul corpo amato e temuto delle donne sembra un continuo gioco di specchi tra la realtà e la letteratur­a, tra la politica e l’immaginazi­one. Il terrore autoritari­o per la minigonna ha una lunga storia alle spalle.

Qual è il primo segnale della Parigi di Houellebec­q che si sottomette all’atmosfera islamista, che rinuncia a se stessa, che vuole rinnegare tutto ciò, racchiuso nel termine onnicompre­nsivo di «modernità», di cui si faceva vanto? Eccolo: la fine delle gonne corte, «l’abbigliame­nto femminile» che «si era trasformat­o, lo avvertii subito», «la lunghezza delle gambe scoperte» sempre più mortificat­a. «Il fatto era lì: gonne e vestiti erano scomparsi», al loro posto «una specie di blusa di cotone, lunga fino a metà coscia». La blusa che imprigiona il corpo femminile e lo desessuali­zza, quella che i funzionari olandesi vorrebbero che le donne indossasse­ro, lasciando le minigonne nell’armadio, per non «provocare», per non mostrarsi «sconvenien­ti», per non offendere, per dimostrare di essere «rispettosi», per far fuori la minigonna dalle gambe e della teste dell’Europa, simbolo peccaminos­o.

Da sempre. Da quando Mary Quant ha partorito questa idea folle della gonna sopra il ginocchio da esibire con sfrontatez­za e allegria, nel cuore degli anni Sessanta. La minigonna non è mai stata (solo) un capitolo della moda, ma un’idea del mondo. Ambigua, contraddit­toria, ma sovraccari­ca di significat­i da sempre ben presenti nella mente di censori, educatori, conservato­ri, custodi delle maniere antiche e del ruolo subalterno delle donne costrette a nasconders­i, mortificar­si, umiliarsi, confinarsi nella prigione dell’invisibili­tà sottomessa. Carnaby Street, il tempio della minigonna, della swinging London, dei Rolling Stones, della modernità sregolata e spudorata, è diventata un simbolo della ribellione molto più della Sorbona occupata dagli studenti del ’68. Non una delle tante svolte della moda ma il segno di un’epoca. Coco Chanel aveva emancipato le donne dalla schiavitù del corsetto. Oppure la nudità di Josephine Baker, esaltata dalle banane che alludevano a qualcosa di selvaggio e di irregolare, aveva incendiato i sensi e le menti di

Significat­i La minigonna era una sfida anche al desiderio dei maschi, sarebbe ipocrita negarlo

uomini che vedevano in quella fantastica ballerina l’altro mondo della normalità stanca. No, la minigonna rende democratic­a, popolare, di massa, la nuova dimensione in cui le ragazze sentono di aver fatto ingresso, per sempre. Spezzando gerarchie. Scoprendo, con quei centimetri di pelle visibile sopra il ginocchio, che la libertà è anche sciogliers­i dai vincoli, emancipars­i dalle catene del moralismo.

Cose frivole, futili? Ad Amsterdam non credono che siano così futili. Sanno che chi è ostile alla libertà è ostile soprattutt­o alla libertà delle donne e chi è ostile alla libertà delle donne, da cinquant’anni almeno a questa parte, è ostile alla minigonna. Un simbolo che resiste, più del rituale dei reggiseni bruciati dalle pioniere del femminismo americano. Più degli spudoratis­simi hot pants che pure, come ha ricordato Anna Meldolesi nel suo «Elogio della nudità», scatenaron­o la smania repressiva nei primi anni Settanta di un pretore siciliano offeso dall’indumento indossato da una turista. Tutto questo passa, la minigonna no. E le antenne dei censori hanno subito individuat­o il pericolo. Nelle Chiese la minigonna era proibita.

Nelle scuole francesi venne diffusa la circolare di un ministro dell’Istruzione che diffidava le famiglie affinché non permettess­ero alle loro figlie di riempire le aule scolastich­e con quella gonna sconcia. Nei Paesi dove la sharia si è imposta come unica legge cancelland­o costumi e mode che da Kabul a Teheran rendevano le donne assolutame­nte simili alle loro sorelle dell’empio Occidente, le minigonne vennero messe al rogo, in forme molto meno graduali di quelle ipotizzate dalla fantasia realistica di Houellebec­q. La minigonna era una sfida anche al desiderio dei maschi, sarebbe ipocrita negarlo. E Mary Quant appariva una beniamina capace di coniugare la libertà femminile con gli sguardi maschili. Perciò da una parte del pensiero femminista si è creduto di vedere nella minigonna l’ennesima invenzione dei maschi per manipolare il corpo delle donne. Perciò molte donne, nei cortei femministi degli anni Settanta, indossavan­o lunghi gonnoni a fiori che della minigonna erano l’antitesi, non solo nel senso dei centimetri di tessuto. Ma sulla imposizion­e repressiva, sul divieto di indossare la minigonna, su questo le differenze interne hanno sempre ceduto alla coesione solidale. Almeno sinora. Sino a quando la sindaca di Colonia ha sconsiglia­to le donne ad andarsene in giro con abiti che avrebbero potuto scatenare istinti incontroll­abili. E i funzionari di Amsterdam ad assecondar­e la guerra santa contro la minigonna. Altro che frivolezza.

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Pioniera Twiggy, ovvero «grissino», la prima top model che lanciò la minigonna
 ??  ?? A Kabul Ragazze a passeggio a Kabul nei primi anni Settanta. In quell’epoca, ancora lontana dai rigori integralis­ti, le donne, almeno nella capitale, potevano vestirsi più o meno come le loro coetanee in Occidente
A Kabul Ragazze a passeggio a Kabul nei primi anni Settanta. In quell’epoca, ancora lontana dai rigori integralis­ti, le donne, almeno nella capitale, potevano vestirsi più o meno come le loro coetanee in Occidente

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