Corriere della Sera

Il «blitz» del premier per evitare ricadute su Boschi e referendum

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danno del governo. Così il fattore referendar­io è stato depotenzia­to, non annullato. Ma così Renzi ha potuto anche separare il destino della Guidi da quello della Boschi, finita nelle intercetta­zioni e nel successivo tritacarne «solo per aver svolto il mio lavoro da ministro», ha detto quando ha saputo dell’inchiesta. La raccontano incredula e stizzita: «Non sapevo nemmeno che avesse un compagno. E tantomeno ci aveva informato che lui avesse interessi nell’ambito del suo stesso ministero».

Ma nel gioco della politica vale per tutti il «non poteva non sapere», e nel rapporto con l’opinione pubblica non è facile spiegare che ogni emendament­o di ogni provvedime­nto passa dal titolare dei Rapporti con il Parlamento prima di essere presentato al vaglio delle Camere. Per dolo, colpa o semplice omissione, la Boschi è finita sul banco degli imputati, additata dalle opposizion­i. Perciò Renzi è dovuto intervenir­e e chiudere il rapporto con la Guidi nel governo. Lui che nei Consigli dei ministri era solito scherzare con i suoi colleghi — «Se vi arrivasse un avviso sapete che fare di quel foglio» — ha separato il garantismo da una vicenda giudiziari­a in cui in molti hanno palesato tratti di ingenuità clamorosa, visto l’uso disinvolto del telefono.

La Guidi doveva dimettersi. E prima del tg delle venti. Ogni giorno in più al dicastero sarebbero valsi almeno un paio di punti percentual­i di cittadini pronti a far la fila alle urne per il referendum contro le trivelle (e contro Renzi). La Guidi doveva lasciare. E in prime-time televisivo. Se non l’avesse fatto sarebbe forse saltata l’agenda dei lavori alla Camera, perché grillini e leghisti, insieme alla sinistra radicale, erano pronti a presentare la mozione di sfiducia proprio in concomitan­za del voto conclusivo di Montecitor­io sulle riforme istituzion­ali. E oltre al Negli Usa A Chicago, Renzi ha postato sui social una foto che lo ritrae mentre fa jogging: «Stamattina presto corsa con Rahm Emanuel, sindaco di Chicago». Sotto, il premier ieri a Boston, al centro Ibm per il progetto Watson titolare dello Sviluppo economico sarebbe stata chiamata in causa anche la Boschi.

Il premier non poteva (né voleva) difendere la Guidi. Alla fine, l’unico a farlo è stato Berlusconi, che si è scagliato contro l’uso delle intercetta­zioni, «vero vulnus della democrazia»: sarà stato per i suoi rapporti con il padre dell’ormai ex ministro o perché proprio lo Sviluppo economico era l’ultimo frammento di quel che fu il vecchio patto del Nazareno. In ogni caso il leader di Forza Italia ha preso le sue parti. Per Renzi invece la mossa era obbligata. Il ministro senza partito doveva dimettersi per evitare che un partito, il Pd, subisse ulteriori danni d’immagine: da Buzzi a Odevaine sono tutti soci sostenitor­i del Movimento 5 Stelle. E con l’approssima­rsi delle Amministra­tive bastano i guai di Roma e di Napoli, di Torino e di Bologna.

Mentre il premier dava il benservito alla Guidi dagli Stati Uniti, a Roma i democrat «tendenza Renzi» discutevan­o dell’inchiesta mettendo insieme i tasselli della vicenda — l’Eni, il referendum, il governo — e giungendo alle stesse conclusion­i di chi li aveva preceduti anni orsono nella gestione di Palazzo Chigi. Percepivan­o insomma «uno strano e minaccioso ticchettio», che il procurator­e nazionale Antimafia Roberti provvedeva pubblicame­nte a silenziare, parlando del lavoro dei magistrati di Potenza: «Questa non è giustizia a orologeria. Dispiace invece rilevare che per risparmiar­e denaro ci si riduca ad avvelenare un territorio con meccanismi truffaldin­i».

Altro petrolio per i sostenitor­i del referendum contro le trivelle. La testa della Guidi forse non basterà a Renzi per chiudere il pozzo dei suoi avversari. Che stanno anche nel suo partito.

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