I FRENI ALLA PRODUTTIVITÀ? IL DEBITO E I VECCHI RICATTI
Stasi economica Inflazione, svalutazione e disavanzi sono causati dalla stessa incapacità dei politici di resistere alle pressioni degli interessi e alle aspettative degli elettori Un male cronico negli ultimi anni della Prima Repubblica
B el regalo ci ha fatto a Pasqua Lucrezia Reichlin sul Corriere. È vero che sul finire dell’articolo mette le mani avanti e attenua il sapore amaro delle conclusioni («il mio è certamente uno scenario improbabile e fantastico») ma l’analisi, scontata l’imprevedibilità delle vicende politiche, così fantastica non è. In particolare non lo è quando descrive la debolezza dell’Italia all’interno dell’Unione Europea: troppo importante per essere esclusa da un eventuale accordo franco-tedesco di maggiore integrazione economico-politica, troppo fragile e diversa per esservi inclusa.
Ma lasciamo da parte la fantapolitica e veniamo alle nostre fragilità effettive. Sono tante, ma due particolarmente difficili da sanare: un debito pubblico che non si riesce a ridurre e una produttività che non si riesce ad accrescere. Da più di vent’anni. La loro somma crea una situazione pericolosa: un debito pubblico così ingente nel contesto di un reddito e di una produttività stagnanti può ingenerare dubbi sulla possibilità che venga ripagato e questi scatenare un attacco speculativo che gli strumenti a disposizione del nostro Paese e dell’Unione farebbero molta fatica a respingere. Ridurre il debito in modo significativo sarebbe forse stato possibile fino alla crisi economica del 2008: poi i debiti sono aumentati ovunque per sostenere l’occupazione e va detto che il nostro, già enorme, è cresciuto meno degli altri. Ma è continuato ad aumentare sino ad ora: in un Paese in cui né il reddito né la produttività crescono, in cui la quota degli occupati è tra le minori in Europa, è politicamente molto difficile destinare risorse fiscali a ripagare il debito e non a sostenere l’attività economica.
E questo ci porta alla più misteriosa delle nostre due anomalie: non il debito, ma la produttività. Il debito non è misterioso, dato l’enorme ammontare che avevamo accumulato prima dell’entrata nell’Euro e la mancata riduzione negli otto anni di vacche grasse che ad essa fecero seguito. Lo è invece la stasi della produttività e la spiegazione più convincente ci conduce, purtroppo, alle politiche dei trent’anni finali della Prima Repubblica, le stesse che sono all’origine del debito. Inflazione, svalutazione, disavanzi e debito sono tutte manifestazioni di una stessa causa, l’incapacità del nostro ceto politico di resistere alla pressione degli interessi e alle domande degli elettori. Dico purtroppo perché quelle politiche — fornendo segnali sbagliati alle imprese — hanno dato origine ad una struttura produttiva che si è rivelata inadatta alla fase di globalizzazione che allora stava aprendosi. La fase che venne poi a sommarsi con l’austerità delle politiche europee. È questa struttura produttiva debole, insieme a grandi sacche di inefficienza e di rendita nei settori terziari, pubblici e privati, che ci rende poveri, che ha nettamente distanziato negli ultimi vent’anni il nostro reddito pro-capite da quelli dei grandi Paesi europei.
Quando Lucrezia Reichlin ci invita a uno stress test, a uno «scenario cui sarebbe bene prepararsi con una discussione non retorica», è a questo che si riferisce. Anzi, a vari scenari. Lasciamo da parte il peggiore, una crisi disordinata e catastrofica del sistema monetario europeo. In tutti gli altri — essendo improbabile un soccorso esterno, un più forte impegno di mutualità da parte di altri stati dell’Eurozona — il nostro Paese deve dar prova di saper affrontare con decisione le due fragilità da cui dipende la nostra debole influenza in Europa. Quanto al debito, il Quantitative Easing della Bce permette alla Banca d’Italia di detenerne una maggiore quantità e questo consente allo Stato italiano, alla fine di un giro contabile, un notevole risparmio in conto interessi. Un risparmio da non sprecare in ulteriori spese, come giustamente sosteneva Fubini su questo giornale. Ma il rapporto tra debito e Pil non cambia e il rischio resta interamente su spalle italiane: è per questo che «gli investitori restano diffidenti». Quanto al ristagno della produttività, nell’attesa che si risvegli a seguito delle riforme lanciate dal governo o per altri motivi, esso rende il nostro Paese meno competitivo e il successo delle nostre imprese più legato ad una dinamica dei costi del lavoro inferiore a quella di Paesi che si avvalgono di una crescita della produttività più forte. Può essere sgradevole sentirselo dire da chi — politici o imprese — non ha fatto abbastanza per sostenere investimenti e innovazione. Ma non cessa di essere vero.