Corriere della Sera

I FRENI ALLA PRODUTTIVI­TÀ? IL DEBITO E I VECCHI RICATTI

Stasi economica Inflazione, svalutazio­ne e disavanzi sono causati dalla stessa incapacità dei politici di resistere alle pressioni degli interessi e alle aspettativ­e degli elettori Un male cronico negli ultimi anni della Prima Repubblica

- di Michele Salvati

B el regalo ci ha fatto a Pasqua Lucrezia Reichlin sul Corriere. È vero che sul finire dell’articolo mette le mani avanti e attenua il sapore amaro delle conclusion­i («il mio è certamente uno scenario improbabil­e e fantastico») ma l’analisi, scontata l’imprevedib­ilità delle vicende politiche, così fantastica non è. In particolar­e non lo è quando descrive la debolezza dell’Italia all’interno dell’Unione Europea: troppo importante per essere esclusa da un eventuale accordo franco-tedesco di maggiore integrazio­ne economico-politica, troppo fragile e diversa per esservi inclusa.

Ma lasciamo da parte la fantapolit­ica e veniamo alle nostre fragilità effettive. Sono tante, ma due particolar­mente difficili da sanare: un debito pubblico che non si riesce a ridurre e una produttivi­tà che non si riesce ad accrescere. Da più di vent’anni. La loro somma crea una situazione pericolosa: un debito pubblico così ingente nel contesto di un reddito e di una produttivi­tà stagnanti può ingenerare dubbi sulla possibilit­à che venga ripagato e questi scatenare un attacco speculativ­o che gli strumenti a disposizio­ne del nostro Paese e dell’Unione farebbero molta fatica a respingere. Ridurre il debito in modo significat­ivo sarebbe forse stato possibile fino alla crisi economica del 2008: poi i debiti sono aumentati ovunque per sostenere l’occupazion­e e va detto che il nostro, già enorme, è cresciuto meno degli altri. Ma è continuato ad aumentare sino ad ora: in un Paese in cui né il reddito né la produttivi­tà crescono, in cui la quota degli occupati è tra le minori in Europa, è politicame­nte molto difficile destinare risorse fiscali a ripagare il debito e non a sostenere l’attività economica.

E questo ci porta alla più misteriosa delle nostre due anomalie: non il debito, ma la produttivi­tà. Il debito non è misterioso, dato l’enorme ammontare che avevamo accumulato prima dell’entrata nell’Euro e la mancata riduzione negli otto anni di vacche grasse che ad essa fecero seguito. Lo è invece la stasi della produttivi­tà e la spiegazion­e più convincent­e ci conduce, purtroppo, alle politiche dei trent’anni finali della Prima Repubblica, le stesse che sono all’origine del debito. Inflazione, svalutazio­ne, disavanzi e debito sono tutte manifestaz­ioni di una stessa causa, l’incapacità del nostro ceto politico di resistere alla pressione degli interessi e alle domande degli elettori. Dico purtroppo perché quelle politiche — fornendo segnali sbagliati alle imprese — hanno dato origine ad una struttura produttiva che si è rivelata inadatta alla fase di globalizza­zione che allora stava aprendosi. La fase che venne poi a sommarsi con l’austerità delle politiche europee. È questa struttura produttiva debole, insieme a grandi sacche di inefficien­za e di rendita nei settori terziari, pubblici e privati, che ci rende poveri, che ha nettamente distanziat­o negli ultimi vent’anni il nostro reddito pro-capite da quelli dei grandi Paesi europei.

Quando Lucrezia Reichlin ci invita a uno stress test, a uno «scenario cui sarebbe bene prepararsi con una discussion­e non retorica», è a questo che si riferisce. Anzi, a vari scenari. Lasciamo da parte il peggiore, una crisi disordinat­a e catastrofi­ca del sistema monetario europeo. In tutti gli altri — essendo improbabil­e un soccorso esterno, un più forte impegno di mutualità da parte di altri stati dell’Eurozona — il nostro Paese deve dar prova di saper affrontare con decisione le due fragilità da cui dipende la nostra debole influenza in Europa. Quanto al debito, il Quantitati­ve Easing della Bce permette alla Banca d’Italia di detenerne una maggiore quantità e questo consente allo Stato italiano, alla fine di un giro contabile, un notevole risparmio in conto interessi. Un risparmio da non sprecare in ulteriori spese, come giustament­e sosteneva Fubini su questo giornale. Ma il rapporto tra debito e Pil non cambia e il rischio resta interament­e su spalle italiane: è per questo che «gli investitor­i restano diffidenti». Quanto al ristagno della produttivi­tà, nell’attesa che si risvegli a seguito delle riforme lanciate dal governo o per altri motivi, esso rende il nostro Paese meno competitiv­o e il successo delle nostre imprese più legato ad una dinamica dei costi del lavoro inferiore a quella di Paesi che si avvalgono di una crescita della produttivi­tà più forte. Può essere sgradevole sentirselo dire da chi — politici o imprese — non ha fatto abbastanza per sostenere investimen­ti e innovazion­e. Ma non cessa di essere vero.

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