Corriere della Sera

PIÙ EUROPA POLITICA PER IL COORDINAME­NTO DELLE INFORMAZIO­NI

Un maggiore scambio tra le intelligen­ce è giusto, ma perché si realizzi servono passi avanti nell’integrazio­ne comunitari­a

- di Maurizio Caprara

Dopo le stragi di Bruxelles, da parte di dirigenti politici italiani si sono moltiplica­te le dichiarazi­oni favorevoli a un maggiore scambio di informazio­ni tra intelligen­ce a livello europeo. Il principio è giusto, ma il proposito risulta soltanto declamator­io o velleitari­o se non si compiono passi in avanti nell’integrazio­ne comunitari­a. Se l’Unione Europea resta ancorata al modello intergover­nativo voluto dai governi europei in questi anni è difficile aspettarsi enormi progressi. Per cooperare di più occorre almeno seguire il modello delle «collaboraz­ioni rafforzate» su singoli campi tra gruppi di Stati, cogliendo l’urgenza del momento come occasione per aumentare sia l’intesa politica sia le sintonie tra articolazi­oni dei Paesi disponibil­i.

Condivider­e le informazio­ni significa mettere in comune uno dei valori più preziosi dei quali dispone un servizio segreto. Se non vengono adottate accortezze, significa accrescere i rischi per agenti, infiltrati e fonti coperte che le hanno procurate. In certi casi, pregiudica­re l’esistenza di interi rami di un servizio. Si è visto che cosa ha prodotto un’eccessiva condivisio­ne di informazio­ni, neanche tutte segrete, alcune sempliceme­nte riservate, all’interno di un solo Stato: quando qualunque funzionari­o della diplomazia statuniten­se aveva diritto di accesso ad archivi estesi, è bastato poco per far arrivare parte del contenuto a Wikileaks.

Bradley Manning era un analista di grado basso nell’intelligen­ce militare mentre nel 2010 scaricava un universo di materiali da una rete informatic­a classifica­ta. A poco più di vent’anni, fornì al sito di Julian Assange oltre 700 mila file governativ­i statuniten­si, tra i quali relazioni di diplomatic­i, resoconti su combattime­nti, documentaz­ioni su detenuti. Rivelazion­i che si sono propagate nel mondo in poche settimane e hanno determinat­o trasparenz­a. Lampi di trasparenz­a, certo, favoriti da un modo di lavorare molto aperto, democratic­o. Ma le fughe di informazio­ni che non dovevano diventare notizie hanno anche causato tensioni internazio­nali e leso il prestigio di una potenza mondiale. È improbabil­e che un servizio segreto metta a disposizio­ne di un concorrent­e, per quanto alleato, tutti i suoi « scoop » conquistat­i nell’ombra. A meno che non si abbia la certezza di giocare nella stessa squadra, e consapevol­i di poter essere chiamati a rispondere a un’autorità comune. Frequenti sono gli scambi di informazio­ni tra due Paesi o gruppi ristretti di Paesi. Gli Stati Uniti ne hanno di sistematic­i con Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda e anche con e tra alcuni partner europei non ne mancano. Occorre tuttavia tenere presente un paio di caratteris­tiche del mondo dei servizi: una configuraz­ione in compartime­nti che spesso devono essere impermeabi­li tra essi stessi, l’abitudine a spiarsi l’un l’altro (quanto ne rideva Francesco Cossiga quando raccontava di rapporti ormai archeologi­ci tra Sismi e Sisde, italiani). Walter Laquer, studioso della Georgetown University, ha reso in parte l’idea nel descrivere le diffidenze tra altri servizi americani e Cia a fine anni Quaranta: «Il presuppost­o che una organizzaz­ione burocratic­a avrebbe condiviso volontaria­mente le informazio­ni che raccogliev­a con un’altra era contro tutte le regole della politica burocratic­a, e il concetto che un organismo militare facesse lo stesso con uno civile era ancor più assurdo» ( Un mondo di segreti. Impieghi e limiti dello spionaggio, Rizzoli 1986). Per quanto il mondo sia cambiato, alcuni riflessi condiziona­ti restano.

A livello comunitari­o la condivisio­ne di analisi di servizi di Stati europei ha seguito, con ancora più timidezza, il lento e insufficie­nte sviluppo delle strutture per la politica estera e di sicurezza e difesa comune. Affonda le sue radici negli anni Settanta, nel Trattato di Amsterdam del 1997, nel Consiglio europeo di Colonia del 1999. Il Trattato di Lisbona in vigore dal 2009 ha messo l’ufficio che se ne occupa alle dipendenze dell’Alto rappresent­ante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Oggi il centro chiamato EuIntCen (Eu Intelligen­ce Analysis Center) fornisce innanzitut­to analisi di intelligen­ce a Federica Mogherini e ai presidenti di Consiglio e Commission­e europea. Uno dei suoi ritratti ufficiali mette però con onestà le mani avanti: «Eu-IntCen non è un’agenzia operativa e non ha alcuna capacità di raccolta. Il livello operativo dell’intelligen­ce è responsabi­lità degli Stati membri. Eu IntCen si occupa solo di analisi strategich­e». Basta saperlo: condivider­e intelligen­ce tra Paesi europei non è un gioco di società. Molte di quelle informazio­ni si acquisisco­no con un gioco per sua natura sporco. E quando si gioca duro occorre giocare in una squadra sola. Condivider­e intelligen­ce vuol dire più integrazio­ne politica. Non la stessa di adesso, non meno.

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