PIÙ EUROPA POLITICA PER IL COORDINAMENTO DELLE INFORMAZIONI
Un maggiore scambio tra le intelligence è giusto, ma perché si realizzi servono passi avanti nell’integrazione comunitaria
Dopo le stragi di Bruxelles, da parte di dirigenti politici italiani si sono moltiplicate le dichiarazioni favorevoli a un maggiore scambio di informazioni tra intelligence a livello europeo. Il principio è giusto, ma il proposito risulta soltanto declamatorio o velleitario se non si compiono passi in avanti nell’integrazione comunitaria. Se l’Unione Europea resta ancorata al modello intergovernativo voluto dai governi europei in questi anni è difficile aspettarsi enormi progressi. Per cooperare di più occorre almeno seguire il modello delle «collaborazioni rafforzate» su singoli campi tra gruppi di Stati, cogliendo l’urgenza del momento come occasione per aumentare sia l’intesa politica sia le sintonie tra articolazioni dei Paesi disponibili.
Condividere le informazioni significa mettere in comune uno dei valori più preziosi dei quali dispone un servizio segreto. Se non vengono adottate accortezze, significa accrescere i rischi per agenti, infiltrati e fonti coperte che le hanno procurate. In certi casi, pregiudicare l’esistenza di interi rami di un servizio. Si è visto che cosa ha prodotto un’eccessiva condivisione di informazioni, neanche tutte segrete, alcune semplicemente riservate, all’interno di un solo Stato: quando qualunque funzionario della diplomazia statunitense aveva diritto di accesso ad archivi estesi, è bastato poco per far arrivare parte del contenuto a Wikileaks.
Bradley Manning era un analista di grado basso nell’intelligence militare mentre nel 2010 scaricava un universo di materiali da una rete informatica classificata. A poco più di vent’anni, fornì al sito di Julian Assange oltre 700 mila file governativi statunitensi, tra i quali relazioni di diplomatici, resoconti su combattimenti, documentazioni su detenuti. Rivelazioni che si sono propagate nel mondo in poche settimane e hanno determinato trasparenza. Lampi di trasparenza, certo, favoriti da un modo di lavorare molto aperto, democratico. Ma le fughe di informazioni che non dovevano diventare notizie hanno anche causato tensioni internazionali e leso il prestigio di una potenza mondiale. È improbabile che un servizio segreto metta a disposizione di un concorrente, per quanto alleato, tutti i suoi « scoop » conquistati nell’ombra. A meno che non si abbia la certezza di giocare nella stessa squadra, e consapevoli di poter essere chiamati a rispondere a un’autorità comune. Frequenti sono gli scambi di informazioni tra due Paesi o gruppi ristretti di Paesi. Gli Stati Uniti ne hanno di sistematici con Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda e anche con e tra alcuni partner europei non ne mancano. Occorre tuttavia tenere presente un paio di caratteristiche del mondo dei servizi: una configurazione in compartimenti che spesso devono essere impermeabili tra essi stessi, l’abitudine a spiarsi l’un l’altro (quanto ne rideva Francesco Cossiga quando raccontava di rapporti ormai archeologici tra Sismi e Sisde, italiani). Walter Laquer, studioso della Georgetown University, ha reso in parte l’idea nel descrivere le diffidenze tra altri servizi americani e Cia a fine anni Quaranta: «Il presupposto che una organizzazione burocratica avrebbe condiviso volontariamente le informazioni che raccoglieva con un’altra era contro tutte le regole della politica burocratica, e il concetto che un organismo militare facesse lo stesso con uno civile era ancor più assurdo» ( Un mondo di segreti. Impieghi e limiti dello spionaggio, Rizzoli 1986). Per quanto il mondo sia cambiato, alcuni riflessi condizionati restano.
A livello comunitario la condivisione di analisi di servizi di Stati europei ha seguito, con ancora più timidezza, il lento e insufficiente sviluppo delle strutture per la politica estera e di sicurezza e difesa comune. Affonda le sue radici negli anni Settanta, nel Trattato di Amsterdam del 1997, nel Consiglio europeo di Colonia del 1999. Il Trattato di Lisbona in vigore dal 2009 ha messo l’ufficio che se ne occupa alle dipendenze dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Oggi il centro chiamato EuIntCen (Eu Intelligence Analysis Center) fornisce innanzitutto analisi di intelligence a Federica Mogherini e ai presidenti di Consiglio e Commissione europea. Uno dei suoi ritratti ufficiali mette però con onestà le mani avanti: «Eu-IntCen non è un’agenzia operativa e non ha alcuna capacità di raccolta. Il livello operativo dell’intelligence è responsabilità degli Stati membri. Eu IntCen si occupa solo di analisi strategiche». Basta saperlo: condividere intelligence tra Paesi europei non è un gioco di società. Molte di quelle informazioni si acquisiscono con un gioco per sua natura sporco. E quando si gioca duro occorre giocare in una squadra sola. Condividere intelligence vuol dire più integrazione politica. Non la stessa di adesso, non meno.