L’ASSOLUZIONE DI SESELJ UN ALIBI PER L’ODIO RAZZIALE
Si può e si deve urlare allo scandalo, pensando alle vittime e alla morte di una nazione, la Jugoslavia, a causa di un’ottusa propaganda nazionalistica e razzista. Ma la sentenza di assoluzione per Vojslav Seselj, l’ultranazionalista serbo accusato di crimini di guerra, va prima di tutto analizzata per comprenderne le conseguenze.
La corte dell’Aia ha stabilito che la propaganda ideologica non è un reato in sé, considerando evidentemente che all’epoca dei fatti Seselj non aveva alte responsabilità politiche o militari (come ad esempio nel caso di Karadzic, recentemente condannato) ma sottovalutando la sua terribile influenza sull’opinione pubblica serba come intellettuale e agitatore.
Se poi si ricorda che Seselj si è consegnato spontaneamente, si è difeso da solo e ha comunque trascorso in carcere tredici anni in attesa della sentenza (gli è stato concesso di tornare a Belgrado per gravi motivi di salute), la vicenda si risolve in una completa vittoria per lui e in un’ulteriore ferita alla credibilità del Tpi. A differenza di altri leader della causa serba, condannati o comunque usciti di scena, Seselj resta un personaggio influente anche nella Serbia di oggi, ancora in grado di fare sentire la sua voce in una fase politica e sociale delicatissima: elezioni, ondate migratorie ai confini, processo d’integrazione europea ancora controverso. Né la Serbia, né l’Europa dei nuovi nazionalismi e dei vecchi populismi in crescita, avevano bisogno di un Seselj riabilitato sul piano giudiziario (anche se il tribunale farà appello) e legittimato a rispolverare l’armamentario culturale e ideologico che lo rese tristemente famoso negli anni dei massacri, della pulizia etnica, delle deportazioni di massa.
Per queste ragioni, l’assoluzione di Seselj è una sentenza che riscrive la storia, che esclude dal giudizio di colpevolezza le responsabilità morali, che può fornire un terribile alibi a quanti incitano all’odio razziale senza sporcarsi le mani di sangue.